Le chiavi servono per aprire le porte
Forse tutti ricordiamo quando, a un certo punto della nostra vita, abbiamo ricevuto dalla famiglia le chiavi di casa, un gesto che certificava una certa responsabilità nei confronti degli altri, una delle soglie di ingresso nell’età adulta.
Forse oggi le cose sono un po’ cambiate, spesso anche bambini hanno le chiavi perché i genitori lavorano e non vi sono i nonni in famiglia, ma prima non era così. Avere le chiavi era appunto il riconoscimento di una maturazione avvenuta, ed anche una responsabilità, occorreva fare attenzione a non perderle, a chiudere la porta al momento opportuno, e certamente segnava anche un ampliamento del raggio di azione della propria libertà, potendo entrare e uscire per ogni necessità. Anche nella liturgia di oggi si parla di chiavi, il brano evangelico è quello classico a fondamento del ministero petrino (Mt 16,13-20) e spesso si parla, anche a livello teologico, di «potere delle chiavi».
Certo c’è un aspetto di potere, evidentemente, se non ho la chiave resto fuori, se non ho la «password» non posso accedere a determinati servizi, ma forse vi sono anche altri elementi da considerare. Vi è una grande responsabilità: non basta, per sicurezza, aprire meno possibile (ricordiamo la reprimenda nei confronti del servo che nasconde il talento -Mt 25,26-); neppure sentirsi così padroni di un tale potere da sottoporre al proprio capriccio il suo esercizio (cf. 1Pt 5,3): ricordiamo le parole sferzanti di Cristo contro gli scribi che hanno «tolto la chiave della scienza» (Lc 11,52) ostacolando il cammino altrui. Se Cristo viene nel mondo per aprire una nuova via di comunicazione fra l’uomo e Dio, se è Lui l’Agnello che è «degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli» (Ap 5,9), significa che il compito della Chiesa è di testimoniare e favorire questo incontro, annunciare l’apertura dell’anno (e non a caso della porta) della misericordia, come è recentemente avvenuto con il Giubileo; non si tratta di un potere fine a se stesso.
Per questo significa prendere sul serio le difficoltà, i cambiamenti, le contraddizioni degli uomini del nostro tempo, esercitare un servizio non facile perché, più che porre argine a un mondo minaccioso, significa annunciare una speranza a cui il mondo ha forse rinunciato. Significa continuare a osare, a guardare ad ogni uomo con gli occhi di Dio per annunciare «l’altissima vocazione» (GS 22) cui ciascuno è chiamato, significa resistere alla tentazione di chiudere le porte per mantenere l’illusione di una Chiesa di perfetti per aprire, come molte volte ribadisce Francesco, le porte della Chiesa sulle strade del mondo.
*cappellano del carcere di Prato