Le benemerenze passate non bastano a salvarci

Ci sono alcuni punti qualificanti dell’esperienza umana, una sorta di «matrici» che imprimono il loro timbro segnando, a volte in modo indelebile, le scelte quotidiane, le azioni concrete nella vita di ciascuno. Uno di questi «punti caldi», che possono diventare dolenti, è l’idea di accumulo. Di per sé è una tendenza ancestrale, sicuramente necessaria nel cammino della vita, ma anche pervasiva.

Si cerca di accumulare di tutto, non solo beni primari, ma anche beni simbolici quali il denaro, onorificenze, riconoscimenti  di vario tipo. Si può cercare di accumulare affetti, sensazioni, emozioni, fino a divenirne dipendenti, oppure, al contrario, ci si lega anche a sentimenti negativi, rotture, rancori, inimicizie che non si cerca affatto di superare lasciandole ben salde al loro posto a determinare il proprio presente. È la difficoltà di perdonare di cui ci ha parlato la liturgia recentemente, come pure l’incomprensione, che troviamo oggi, per l’azione di Dio che non si lascia determinare nel rapporto con le sue creature né dal cumulo della benemerenze passate né da quello dei peccati dell’individuo, la quale provoca il risentimento nei suoi confronti (Ez 18,25-28; 1a lettura).

Il mondo è strutturato intorno alle appartenenze, al binomio dentro-fuori, dove spesso chi è dentro  si può permettere anche una certa rilassatezza, avendo un qualche certificato sul quale contare, e chi è fuori rimane lì, nonostante la buona volontà, non potendo presentare un analogo «diploma». È uno schema che possiamo ritrovare in innumerevoli gruppi sociali, non esclusi quelli religiosi. Per Dio non è così, quello che conta è il momento presente, l’adesso, che diviene ora propizia per la salvezza (cf. 2Cor 6,2).  Ogni momento  può diventare questa «ora», anzi la conversione è proprio un modo di essere, non tanto un momento particolare che si perde nel fluire del tempo, è  la ricerca quotidiana del volto del Signore.

Non è che la memoria non serva a nulla, le esperienze passate concorrono a fortificarci o a indebolirci ma non possono essere congelate, immagazzinate e usate al bisogno. Perciò il peccatore che si pente viene perdonato, perché ha imboccato la via della salvezza, è il naufrago che è approdato  a terra. E chi lascia il riferimento a Dio semplicemente si perde, per quanto uno possa aver seguito uno stile di vita sano non può permettersi di mangiare cibo avvelenato. I due figli della parabola (Mt 21, 28-32) lo esprimono chiaramente: il rapporto con Dio è dato da una scelta che si rinnova, si modifica, può anche regredire, non è data una volta per tutte. Potremmo fantasticare su questo brano e pensare a una scena ulteriore: il secondo figlio, quello che va alla vigna dopo essersi all’inizio rifiutato, lungo la strada ci ripensa e torna indietro mentre il primo recupera quella disponibilità che aveva espresso  e poi rinnegato, per tornare a fare quello che aveva promesso.

Anche in questo caso le carte in tavola cambierebbero daccapo perché sarebbe cambiata la risposta  a Dio in quel momento:  vi è un’altra ora, un’altra occasione da giocare, vi è un nuovo «tempo della salvezza» da accogliere o rifiutare (cf. Eb 4,7). Questo significa che, deponendo ogni boria e falsa sicurezza, siamo sempre chiamati ad essere nomadi e pellegrini, «profittando del tempo presente» (Ef 5,16) e volgendo lo sguardo a colui che ci sta di fronte per avere, come dice Paolo nella seconda lettura di oggi (Fil 2, 1-11),  «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù».

*Cappellano del carcere di Prato