Le beatitudini, una rivoluzione
Abbiamo avuto modo, nelle scorse domeniche, di confrontarci con questo strano tipo di Messia che non sembra realizzare quanto precedentemente annunciato dal Battista, raccogliere il buon grano nel granaio e bruciare la paglia con fuoco inestinguibile.
Abbiamo infatti visto il Messia in fila con i peccatori al Giordano, identificato da Giovanni come l’Agnello che porta il peccato del mondo. Sarebbe comunque fuorviante pensare che il Messia abbia, per qualche suo recondito motivo, deciso di modificare il suo approccio col mondo, ammorbidendo l’impatto con la realtà incontrata. A volte nella predicazione si tende ancora a contrapporre il buon Gesù all’ iroso Dio del vecchio testamento. Eppure se c’è una pagina di una durezza inaudita, una sentenza senza appello sul mondo peccatore, un sovvertimento rivoluzionario di ogni impianto ideologico è proprio questa pagina delle Beatitudini, che ascoltiamo nella liturgia di oggi (Mt 5,1-12).
È una pagina che non permette alcun aggiustamento, poiché si tratta di una descrizione della realtà che Dio vede e giudica. Non ci viene detto come fare a essere poveri in spirito, e neppure che è bene essere miti, o come dovremmo fare ad essere puri di cuore. Ci potranno essere delle indicazioni successive, ma innanzitutto ci viene detto che questa è la realtà, è beato, è salvo, è in sintonia con Dio chi si trova in questa situazione. E per contro, dice Luca, è nei guai chi si trova nella situazione opposta (cf. Lc 6,24-26).
Il primo passo è la guarigione del nostro sguardo: è chiaro che se inseguiamo la volontà di potenza o sopraffazione non prenderemo mai sul serio nessuna richiesta che il Vangelo ci propone, specialmente se riguarda cose radicate nel nostro istinto: come si fa a dire beato chi ha fame e inguaiato chi è sazio? Eppure la realtà di Dio è questa, questo è il giudizio, l’ingresso di Dio nel mondo è una campana a morto per ogni pretesa umana, per le idee chiare e distinte, per i valori codificati, per i sedimenti delle tradizioni. Ci viene detto che tutto è provvisorio perché la nostra terra, la nostra meta è altrove e ogni volta che penseremo di averla raggiunta saremo, appunto, nei guai, perché Dio stara sempre più in là, più in avanti, insieme a quelli che sanno di non essere nella terra promessa, perché sperimentano le contraddizioni dell’esistenza, l’incapacità ad incastrarsi nella griglia che la ragione, la potenza, l’economia umana ha elaborato.
I beati sono quelli accampati sotto la neve ai confini dell’Europa, perché svelano impietosamente la falsità delle democrazie dorate dell’occidente; le donne violate e oppresse da ideologie e religioni perché i volti e i corpi colpiti dimostrano l’inconsistenza di un affetto malato o una pretesa tutela. Parliamoci chiaro: non c’è nulla di bello o beatificante nella loro esperienza, né alcun tentativo di giustificarla; solo che Dio parte da qui, come già partì con gli esuli, il piccolo resto che ritorna dall’esilio (cf. Sof 3,12). L’arroganza del persecutore parla in realtà della sua debolezza, il tronfio potente di questo mondo si dà da fare innanzitutto per illudere se stesso, ogni lifting è un pietoso tentativo di non vedere la realtà. Ecco perché chi è capace di guardarla in faccia, per scomoda che sia, è già in una relazione di autenticità con se stesso e con Dio, è uno che non si fa ingannare dai miraggi, dalle «magnifiche sorti e progressive» che periodicamente riemergono all’orizzonte, e neppure, al contrario, dalla paura alimentata ad arte per manipolare sensazioni e consensi.
*Cappellano del carcere di Prato