L’amore non fa calcoli e nel donarsi si ritrova

La mansuetudine è la capacità di essere contenti delle vie che Dio sceglie per noi e di vedere in ognuna di esse un segno della sua amorosa provvidenza. Abbiamo conosciuto, in questi giorni, una signora anziana che è venuta a portarci della provvidenza. Dopo dieci anni di matrimonio, il Signore le concesse un figlio, ma lo perse quando il giovane aveva solo diciannove anni. In seguito, il marito si ammalò e lei lo assistette per circa trent’anni. Osservavo il suo volto coperto di rughe, le sue mani raggrinzite: quelle stesse mani che ci hanno portato la provvidenza. Il suo sorriso è pulito, specchio di un’anima purificata dalle fragilità umane. E pensavo: «Il Volto di Dio deve essere come quello di questa donna». È difficile descrivere la bellezza e la luce «divina» di una donna anziana che ha superato le tante prove della vita, e ha continuato ad amare. Non è certo il fascino o lo splendore di un corpo giovane: è una bellezza meno appariscente ma più vera e che, dolcemente, ti scivola dentro il cuore. È un’armonia di anima e corpo che trasmette pace. Con un sorriso disarmante, ci diceva: «Io voglio bene a tutti, perché l’amore è gratis!».

L’ora di Gesù, di cui ci parla il vangelo di oggi (cfr. Gv 12,23.27.31), è proprio l’ora dell’amore e del dono totale di sé. La gloria di Gesù, per il vangelo di Giovanni, non è tanto o solo la risurrezione, ma la croce: lì è l’apice del dono, lo sconfinato amore con cui Cristo ci ha amati. A chi desidera vederlo (cfr. Gv 12,21), Egli ora indica la strada per raggiungerlo. E questa strada è Lui stesso (cfr. Gv 12,26). Nessuno di noi è capace di un amore simile al suo, pronto a spogliarsi di sé per rivestirsi della volontà del Padre. Ogni giorno, come tanti chicchi di grano, siamo chiamati a morire a noi stessi, per avere in dono la Sua vita (cfr. Gv 12,24). Siamo chiamati ad accogliere vie strane, impensate, talvolta del tutto incomprensibili. Perché chi trattiene la propria vita, la perde; chi la dona, la ritrova in pienezza (cfr. Gv 12,25).

L’obbedienza alle vie di Dio è il passo più importante e anche il più difficile. È il gradino più alto, forse, nel percorso della vita. Perché il vero scoglio non sono le sofferenze, ma il non poter scegliere noi la via, la strada, le consolazioni e le desolazioni. Pensiamo di saperne più di Dio. Siamo un po’ come Adamo ed Eva: in fondo, qualche volta vediamo in Dio un concorrente della nostra felicità e non un Padre. Temiamo voglia toglierci qualcosa. Non abbiamo fiducia. Ma per godere dell’abbraccio del Padre, l’unica via è quella indicata dal Figlio.

Quando Dio parla, la folla radunata attorno a Gesù interpreta in vari modi questa «voce dal cielo» (Gv 12,28). Ma Gesù spiega il senso autentico di quelle parole. Questo ci dice che non possiamo vedere Dio, incontrarlo, «capirlo», se non attraverso Cristo. E non possiamo vedere Cristo, se non attraverso la Chiesa. Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). Ecco lo scoglio più grande per «vedere Gesù», anche per noi religiosi e consacrati: una vera fiducia nell’obbedienza alla vita, alla Chiesa, alle mediazioni umane. Ma «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). E se la conseguenza del non morire è la solitudine, allora l’effetto del morire sarà la comunione. Ecco perché, sulla croce, nell’atto di fiducia e di obbedienza più totale, nel più sublime dono di amore, nella solitudine più tremenda, Gesù diviene seme di unità. Dice infatti: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Giovanni spiega che «diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33): non di una morte subita, ma di un dono consapevole, proprio di chi ha scelto di amare «fino alla fine».

Una delle immagini più belle dell’ora di Gesù è l’affresco che il Beato Angelico dipinse in una delle celle del convento di San Marco, a Firenze: il «Cristo deriso». L’artista offrì ai frati come modello e guida, nella via cristiana e religiosa, quel Cristo che il quarto evangelista presenta come Signore della storia proprio nell’atto di dare la propria vita sulla croce. Seduto in trono, ritto, con una spugna in una mano, un bastone nell’altra e la corona di spine sul capo, Gesù ha gli occhi chiusi e ricoperti da una benda trasparente: sceglie di non guardare il peccato e il rifiuto dell’uomo ma solo la bellezza che la propria obbedienza al Padre sta per riconquistargli. Attorno a Gesù, si scatena una tempesta di sputi, percosse e violenze. E più luminoso diviene, in questo scenario di morte, il suo volto sereno di Uomo-Dio sofferente, follemente innamorato della propria creatura. L’amore è mite. L’amore non si arrende. L’amore non fa calcoli. E nel donarsi, si ritrova. Per sempre.

Sr. Mirella Caterina Soro