L’abito nuziale delle opere buone
1. Il brano evangelico odierno sorprende per la sua complessità e per il suo linguaggio che necessitano di particolare attenzione per evitare fraintendimenti. Fuori metafora Matteo asserisce che con la venuta di Gesù il Padre dichiara giunto il tempo ultimo (Mt 4,7; Mc 1,14; Gal 4,4) delle nozze tra il Figlio, lo sposo, e Israele e le genti, la sposa, a segno e a compimento di una alleanza d’amore già narrata nella tradizione profetica in termini sponsali. Banchetto nuziale di felicità in cui lo sposo porta in dote i beni messianici della giustizia superiore (Mt 5,20) e della vita eterna nella resurrezione (Mt 22,23-30). « Tutto è pronto» (Mt 22,4): il Messia sposo, il banchetto, i cibi e la chiamata della sposa: « Venite alle nozze» (Mt 22,4).Tutto, secondo Matteo, è pronto per il Padre ma non altrettanto per la sposa.
2. In Matteo 22,1-7 l’evangelista riassume il suo punto di vista circa il rapporto Gesù-Israele e discepoli di Gesù-Israele a partire dalla resurrezione di Gesù, una relazione contraddistinta dal rifiuto di Israele di riconoscere e di accogliere Gesù come Messia, un rifiuto esteso a quei discepoli del risorto che nel dopo Pasqua si sentivano inviati innanzitutto a Israele: «Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione, perché ciascuno di voi si allontani dalle sue iniquità» (At 3,26). Matteo ama sottolineare questa duplice insistenza: di Dio nel mandare e rimandare i suoi servi, qui i missionari post-pasquali di Gesù, e di Israele nel dire no: « Questi non volevano venire» (Mt 22,3), non se ne presero cura (Mt 22,5) in nome di loro specifiche ragioni e senza negarsi gesti di violenza (At 7,55-60; 8,1; 12,1-2). Una persistenza nel no che spinge il re nella sua indignazione a distruggere la città di quegli invitati indegni, e il riferimento esplicito è alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte dei romani nel 70 d.C., evento che Matteo legge come castigo di Dio al no della sposa Israele alle nozze messianiche (Mt 22,5).
Pagina davvero riassuntiva di alcuni decenni di rapporto tra l’ebraismo raccolto attorno alla Legge e l’ebraismo riunito attorno a Gesù il Messia, realtà che da un inizio contrassegnato da una convivenza differenziata all’interno dello stesso Israele (At 3,1) è andata mano a mano deteriorandosi fino alla separazione non solo a causa della diversa interpretazione di Gesù, Messia per gli uni e non per gli altri, ma anche per tutta una serie di motivi socio-politico-culturali che non possiamo analizzare in questo contesto. Nascono così due strade parallele nella testimonianza del Nome e della sua via e per i cristiani una ulteriore scandalosa e folle visione del Padre di Gesù in Gesù. L’ostinato nel chiamare Israele al banchetto nuziale del Figlio risponderà in ultima istanza al rifiuto della sposa con una ulteriore ostinazione d’amore (Rm 9-11), trasmessa ai discepoli del Messia che ne dovranno essere i testimoni nel corso della storia. Testimonianza sovente disattesa in nome di una «verità senza amore» che proprio a motivo di questo «senza» diventa negazione del «paese dell’altro», mentre Dio in Cristo continua a dire sì a chiunque gli dice no e, nel caso di Israele, a conservare vivo il dono di Gesù-Messia al tempo opportuno. Così pensano i cristiani.
3. Un no che tra l’altro ha finito per favorire e per accelerare la chiamata delle genti, l’invito al banchetto di tutti i popoli. Di questo si parla in Matteo 22,8-14, versetti in cui viene offerta una peculiare visione di Chiesa: un insieme di persone raccolte da ogni vicolo della terra, cattive e buone, a nessuno è precluso il pasto nuziale con il Figlio; riunite dagli annunciatori a rivestirsi del dono dello sposo, l’abito nuziale delle «vostre opere buone» (Mt 6,10), «la veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8). La chiamata gratuita è in vista di un dono che implica libera, responsabile e fattiva accoglienza, divenire sempre più, giorno dopo giorno, simili a Dio-amore e a Cristo amore in sintonia con il discorso della montagna che apre un cammino fino al dono di sé, fino alla croce che dell’amore è la più alta manifestazione. Una chiamata pertanto non all’indifferenza ma ad un elevato stile di vita oltre ogni logica del sentirsi garantiti solo perché appartenenti al corpo visibile della Chiesa (Mt 7,21-23).
In questa ottica va letto il versetto: «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti»; versetto di sapore apocalittico che non giustifica nessuna teoria della predestinazione, perché tutti sono chiamati a salvezza (1Tm 2,4), ma che sprona l’uomo a voler divenire creatura salva. Il che accade in ogni celebrazione domenica della Cena del Signore, invitati a vestire l’abito nuziale del perdono,della parola e dell’amore simile a pane che si spezza e che si consegna in cibo per perdonare, illuminare e amare. Chi entra in questa logica fa già parte del mondo futuro di Dio, ha capito il senso vero della veste bianca battesimale. Divenire nei perdoni, nelle non autogiustificazioni e nel non giudizio degli altri acqua alla sete dell’uomo e vino alla sua tristezza sulle orme di Cristo.