La vigna amata fino a morirne
1. Questa pagina evangelica richiede molta attenzione, è un racconto a più strati il primo dei quali riguarda il rapporto padrone (Dio), vigna (Israele, e in Israele leggi Chiesa e umanità), contadini (capi dei sacerdoti, anziani del popolo, farisei: Mt 21,23.45) e servi (profeti). Gesù ricollegandosi alla secolare tradizione del «cantico della vigna» (Is 5; Ger 2,21; Ez 19,10-14; Os 10,1; Sal 80;Gv 15) ne contempla simultaneamente il tempo della nascita, l’atto di fondazione dovuto alla passione d’amore di un Tu che esce dalle sue solitudini per darle vita; il tempo della crescita legato all’invio di guide il cui compito o lavoro consiste nel non privare la vigna della conoscenza della Torà-Legge (Os 4,4) la cui accoglienza fa maturare l’uva eccellente del diritto,della giustizia, della benevolenza e della pace; e il tempo del raccolto inviando di volta in volta i suoi amici-profeti a verificarne la qualità. Un invio non gradito alle guide che puntualmente bastonano, uccidono e lapidano i mandati da Dio percepiti come coscienza critica al loro operato. Siamo al cospetto di un fenomeno che accompagna da sempre Israele, le Chiese, le religioni e la società civile, quello del rapporto istituzione-profezia.
Di fatto quando la prima da «affittuaria» (Mt 21,33) diventa «padrona» in obbedienza al proprio istinto di potenza, inesorabilmente non può sopportare quanti le ricordano il compito di serva di Dio e di una parola tesa non a creare sudditanze ma uomini e donne liberi per ciò che è giusto perseguito con amore incandescente, un fuoco depositato da Dio nella cella del cuore di ciascuno. Cosa che i capi a cui Gesù si rivolge sanno bene. Non è lui a giudicarli ma essi diventano i giudici di loro stessi: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini? Gli risposero: darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a so tempo» (Mt 21,40-41). Gesù non si limita a parlare a loro ma parla di loro che per questo cercano di catturarlo (Mt 21,45-46).
2. Siamo così introdotti al secondo strato del racconto di tipo cristologico-ecclesiologico. Il profeta (Mt 21,46) che parla ai capi in realtà, ed è questa la fede della comunità matteana, è il «figlio del padrone», è l’ «erede» della vigna (Mt 21,37.38) venuto a lavorarla con un Vangelo tale che ove accolto è potenza di Dio capace di dare luogo a una umanità amata e amante come non mai sotto il sole. Un frutto, questo dell’amore che include diritto, giustizia e pace, di cui la vicenda del figlio-erede è chiara esemplificazione: ucciso dai capi religiosi e civili fuori dalle mura di Gerusalemme (Mt 21,39; 27,31-33; Eb 13,12) egli li guarda con occhi di tenerezza rivolgendosi ad essi con labbra di perdono: «Padre perdona loro» (Lc 23,34).
Il Padre in questo Inviato si rivela cura senza condizioni non solo per la vigna Israele-Chiesa-Umanità ma altresì per i suoi devastatori perché solo l’agape è energia capace di trasformare un cuore padronale e rapace in un cuore liberamente e allegramente dedito a veicolare la volontà di bene di Dio in Cristo per la sua vigna che in definitiva è ciascun uomo. Un Cristo che da pietra scartata dai costruttori, le guide cieche e stolte (Mt 23,16.17), è stato costituito testata d’angolo di una nuova creazione in cui il Regno di Dio come evento di popolo amato che ama come amato diventa storia. In Israele, la Chiesa giudeo-cristiana, e nell’umanità, la Chiesa etnico-cristiana. Il «popolo» di cui qui si parla senza articolo (Mt 21,43) di fatto indica genericamente quanti hanno aderito alla predicazione del Battista, di Gesù e degli annunciatori cristiani, con i quali l’erede inizia una vicenda singolare, quella di chiamati ad adempiere nella compagnia degli uomini il loro compito di traduttori dell’agape passando dall’ama te stesso all’ama il prossimo tuo come te stesso fino al giovanneo ama come Dio ti ha amato in Cristo. Un frutto a cominciare dalla vigna Israele che, non sostituita dalla Chiesa, non è questa la prospettiva di Matteo, continua a rimanere l’eletta, l’amata e la testimone del Nome e della sua via, per continuare con quanti nelle Chiese svolgono il compito di guida.
3. Il fare la verità con amore (Ef 4,15) nei confronti delle guide implica una uscita dalla negazione aprioristica del loro ruolo, così come dalla adulazione e dalla paura. In breve oltre ogni consenso e dissenso acritici per un ingresso nel rendimento di grazie per il loro esserci in un coraggio profetico capace di dire no quando, qualsiasi ne siano le ragioni (1Pt 5,1-4), la memoria del primato del Vangelo viene da esse disattesa contribuendo alla devastazione della vigna-Chiesa. Devastazione visibile, tra l’altro, quando l’autoritarismo dei capi tende a generare sudditi e non soggetti liberi e adulti corresponsabili, ciascuno a proprio modo, del bene comune, cioè della condivisa bellezza di un esserci evangelico nel e per il mondo.