La vera morte da cui Gesù ci vuole salvare è il peccato

DI GIACOMO BABINI Vescovo emerito di Grosseto28 giugno, 13ª Domenica del Tempo Ordinario. Sono assai diverse le due donne del Vangelo, ma sono accomunate dal medesimo  bisogno «La  guarigione dalla malattia». Ed in modo diverso arriva a Gesù la stessa domanda. Ottengono da lui il dono desiderato, la salute. Gesù chiede di non diffondere la notizia perché ha in programma  una  buona  notizia più grande: «Non abbiate paura di chi può uccidere il corpo; abbiate paura di chi può uccidere il corpo e l’anima». Vangelo: «Contro malattia e morte»Le letture di oggi suscitano domande  molto problematiche quasi inquietanti. Gesù guarisce una ammalata, resuscita una morta. Perché dopo questi fatti gli uomini devono ammalarsi ancora e poi morire? Allora i miracoli di Gesù non cambiano nulla?  Ci sono però elementi per capire che la vera morte da cui Gesù ci vuole salvare è quella della separazione da Dio, quella del peccato. Della bambina, figlia del capo della Sinagoga Gesù dice «non è morta ma dorme». E per questo  viene deriso. Della donna ammalata che voleva toccarlo, mentre la folla lo stringe da tutte le parti, dice: «Chi mi ha toccato?», suscitando anche in questo caso l’imbarazzo dei discepoli. Di fronte alla morte corporale (vedi il caso di Lazzaro) egli parla di sonno. La seconda definitiva  morte, per lui è qualcosa di diverso. La  stessa malattia   per gli ebrei era il preludio della morte  viene giudicata diversamente da Gesù.  Guarisce la malattia attraverso una energia  che esce da Lui stesso. Dice «Io sono la vita» «Chi crede in me anche se morto, vivrà». Quanti sono quelli che riescono a superare la coricacea  logica dei sensi e arrivare alla libertà della fede?I Lettura: «Dio non ha creato la morte»La prima lettura spiega  che Dio non ha creato la morte. La presenza della morta nel mondo la attribuisce all’invidia del diavolo. Tutti devono morire, ma c’è una distinzione tra la morte naturale come fine dell’esistenza terrena,  e la morte innaturale  causata dalla pretesa degli uomini di uscire dal disegno di Dio, delle creature razionali che non intendono riconoscere l’evidenza della loro dipendenza.

Il ramo che vuole staccarsi dall’albero,  l’uomo che rifiuta di chiedere alcunché a Dio, perché può fare tutto da se stesso, questa opposizione orgogliosa ed offensiva è la morte. «Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno». Se Dio ha creato l’uomo per una esistenza terrena limitata nel tempo, l’uomo con i suoi peccati  si è messo nella condizione di non riconoscere affatto  il dono della vita.

II Lettura: «Il più grande atto di carità»

«Egli, dice la seconda lettura,  che era ricco, divenne per voi povero per arricchirvi con la sua povertà». La carità può essere fatta con atteggiamenti interiori diversi, addirittura opposti tra di loro: Dare qualcosa a chi tende la mano per levarselo di torno. Dare qualche  euro perché si sa che sono nel bisogno pur sapendo che la nostra elemosina è una goccia nel mare dei  bisogni. Dare quello che si può senza fare calcoli, ma  per esprimere simpatia verso il bisognoso. Forse questa è la carità più vicina  all’amore del Signore. Egli ha vinto la morte non con la Sua onnipotenza, ma scendendo nella povertà della condizione  di coloro  che né conoscevano né speravano nella salvezza eterna. Dall’interno  della condizione  nostra  ha affrontato l’ignoranza, il peccato  ed è diventato liberatore per tutti, facendo fiorire la conoscenza e la speranza nel Padre universale, e si è posto come la via per ritornare a Lui. Afferriamo come naufraghi la mano  tesa e non  la lasciamo per nessun motivo.