La vera forza della preghiera
La liturgia di oggi sembra quasi una replica di Dio sul tema della fede incontrato un paio di domeniche fa. Lì il profeta si interrogava sull’apparente inazione di Dio di fronte alla violenza e all’oppressione, qui è Gesù che si domanda se il credente è davvero coinvolto in un rapporto di fede con Dio che lo porti a chiedere insistentemente, nella preghiera, il suo intervento (Lc 18,1-8).
Come dire: hai davvero occhi aperti sulle contraddizioni che vedi intorno a te, senti davvero l’incongruenza con il progetto di Dio? Allora impegnati in un dialogo serrato con lui, la preghiera diventi forma della tua lotta, che diviene forza inarrestabile, non delega ma compartecipazione, coinvolgimento vitale. In caso contrario anche lo scandalo per l’assenza di Dio, il Dio impensabile del «dopo Auschwitz», diverrebbe lo scandalo del benpensante, del chiacchierone da Bar sport, che si illude di possedere la ricetta per l’andamento del mondo in tutti i campi della vita dell’uomo. Ricordo a questo proposito, in gioventù, il fascino del binomio «lotta e contemplazione» che veniva riportato nei libri di spiritualità che narravano la vita della comunità di Taizé o altre simili, dove la preghiera non era un atteggiamento rinunciatario e di rassegnazione a un fato imperscrutabile ma la lente per notare le contraddizioni della storia, farsene carico e presentarle a Dio con la responsabilità di operare nella propria vita con la fantasia, le intuizioni e le scoperte che lo Spirito poteva suscitare. Questa visione di una preghiera che intesse la vita e le azioni del credente è delineata in modo netto, quasi sgradevole alla sensibilità di oggi, nella prima lettura (Es 17,8-13).
Certo molti interrogativi possono nascere: «non è una preghiera troppo meccanica, con quelle mani sostenute a forza per non farle abbassare, quasi fosse un gesto magico? E quel finale sconvolgente dove tutti vengono passati a fil di spada?». Dobbiamo dare atto al nuovo lezionario di aver avuto il coraggio di inserire anche quest’ultimo versetto nella lettura, mentre fino a pochi anni fa era stato espunto. Ma non è forse questo un sogno ricorrente nell’immaginario umano, perfino del credente? Una preghiera davvero efficace che faccia una volta per tutte piazza pulita dei cattivi (beninteso quelli che noi individuiamo come tali)? Ma nella maggioranza dei casi è difficile essere così espliciti con Dio, chiedere il suo intervento per sterminare il nemico non si fa, non sta bene. Ciò non significa automaticamente che abbiamo capito qualcosa o siamo più umani. A volte il sentimento rimane nascosto, dietro alle molte parole di pace pronunziate in Chiesa possono risuonare nostalgie di pulizie definitive, di interventi risolutivi, dell’uomo forte che sappia finalmente come fare le cose in ambito politico e istituzionale, e per far questo la preghiera non serve più. Ma se, al contrario, essa ha quella forza inarrestabile che la Scrittura ci presenta, in Cristo non ha più senso farne uno strumento di vendetta o dominio, rimane come energia vitale per spingere la nostra vita a fianco del povero e dell’oppresso, per elevare il grido a Dio e operare affinché, come alla vedova del Vangelo, venga loro resa giustizia.
*Cappellano del carcere di Prato