La Trinità ci svela il nome di Dio
Domenica 18 maggio, Santissima Trinità: «Signore, Signore, Dio misericordioso e pietoso» (Es 34,4-6.8-9); «A te la lode e la gloria nei secoli» (Dn 3,52-56); «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo» (2 Cor 13,11-23); «Dio ha mandato il Figlio suo perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-18)
DI MARCO PRATESI
Nella festa della Santissima Trinità, vediamo Mosè salire sul Sinai, dove Dio si fa conoscere a lui – e quindi a tutto Israele e a noi – in modo molto intimo e personale, nel proprio «Nome». Tale rivelazione è descritta in modo suggestivo come un passaggio di Dio – egli non può mai essere «bloccato» dall’uomo – che proclama il proprio Nome.
Il Nome consiste in una serie di attributi – si tratta probabilmente di una formula liturgica – che si riferiscono tutti alla relazione con l’uomo. La cosa non è senza significato: si conosce Dio non in astratto, come un oggetto, ma stando in relazione personale con lui.
Egli è compassionevole, si lascia cioè toccare nell’intimo dalla vicenda umana. È clemente, disposto alla benevolenza, a fare grazia, a chinarsi sull’uomo. Di fronte al suo peccato, impiega molto tempo prima di adirarsi, sa attendere, non è facile all’ira. È autenticamente amante dell’uomo, lo ama di un amore sovrabbondante, ricco, affidabile, fermo, che non viene meno. È significativo anche che l’attributo che si riferisce all’ira sia per così dire circondato dagli altri, tutti favorevoli: in Dio anche l’ira permane sempre all’interno di un quadro positivo, e non può essere correttamente intesa che a partire dalla sua bontà.
Fondandosi su questo Nome, Mosè intercede per il popolo: Dio receda dal suo proposito di non camminare più in mezzo al popolo (cf. 33,3); Dio perdoni, rimanga con Israele in quella speciale relazione che è costitutiva dell’alleanza. Bisogna ricordare che questo episodio segue la immediata violazione dell’alleanza da parte di Israele nell’episodio del vitello d’oro (Esodo 32), che ha suscitato l’ira di Dio (cc. 32-33).
«Per il tuo Nome». Non può esserci altro fondamento alla preghiera, perché non può esserci altro fondamento all’alleanza stessa, alla relazione tra Dio e l’uomo. Essa non può fondarsi adeguatamente sul versante umano, incerto e inaffidabile: «il vostro amore è come una nuvola mattutina, come la rugiada che di buon’ora si dissolve», lamenta il profeta Osea (6,4). Il vero punto di forza dell’alleanza è il contraente divino; solo imparando a fondarsi sempre più su di lui, conoscendo sempre più intimamente il Nome, l’uomo diventa progressivamente fedele.
In Cristo Dio ha scelto di perdonare e camminare con il mondo. Il Figlio è inviato a salvare, non a condannare il mondo (lo ricorda l’odierna lettura evangelica), segno levato in alto per la salvezza di chi crede. Se il Nome di Dio già si rivela nell’episodio di Mosè sul Sinai, rivelazione piena ne è Gesù e la sua «opera sulla terra» (cf. Gv 17,4-26). Quando l’amore col quale il Padre ama il Figlio sarà nei discepoli, allora essi conosceranno il Nome di Dio. Essendo una cosa sola nell’unità del Padre e del Figlio, in quel Nome saranno conservati. Questa la grande chiamata di quanti, battezzati nel Nome della Trinità, sono «un popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (S. Cipriano di Cartagine, De Oratione Dominica 23; cf. Lumen Gentium 4).