La signoria di Cristo Re, seme gettato nel mondo
La liturgia di questa domenica, ultima dell’anno liturgico e festa di Cristo Re, ci presenta la figura del Messia con i tratti più classici del linguaggio biblico, il figlio d’uomo che viene con le nubi del cielo (Dn 7, 13-14; 1ª lettura) o che ritorna dopo la passione sofferta (Ap 1,5-8; 2ª lettura).
Quest’ultimo brano non si limita a ripetere l’annuncio di Daniele ma vi inserisce anche la vicenda della morte in croce, sempre, però, con quest’aura gloriosa e tremenda come sfondo, a prima vista anche con una venatura vendicativa nei confronti di quelli che lo trafissero e ora sono costretti a battersi il petto. Ricorda una scena che si ripete in molti film di azione: il protagonista, offeso e umiliato in un primo tempo, che torna a far piazza pulita dei suoi nemici, rigorosamente da solo (quando non ostacolato dai suoi che lo vorrebbero più moderato) in un tripudio di esplosioni e fuochi d’artificio. Ebbene, questa non può essere la chiave di lettura della festa di oggi e del mistero che essa propone alla nostra attenzione: la signoria di Cristo sul cosmo, il compimento dell’opera creatrice di Dio e della ricapitolazione di tutto nel Figlio, non può essere soltanto il ribaltamento della discesa del Cristo fino al punto più infimo, nel lancio verso l’empireo celeste. È vero, c’è e ci deve essere la consapevolezza della propria follia, del proprio aver voltato le spalle alla fonte di acqua viva per scavarsi cisterne screpolate, come dice Geremia (cf. Ger 2,13), ma non come frutto del timore per colui che è tornato.
Già all’inizio della predicazione di Pietro, gli astanti si sentono trafiggere il cuore per l’enormità dell’errore in cui erano incorsi rifiutando Gesù Cristo (cf. At 2,37), ma è un movimento che apre al Battesimo, alla sequela, è lo Spirito che muove il cuore e rende il pentimento un volgersi verso la salvezza, affrontando il proprio male con la fiducia di chi, come il popolo nel deserto con il serpente, alza gli occhi all’innalzato sulla Croce (cf. Gv 3,14). In quest’ottica è anche maggiormente comprensibile il brano evangelico di oggi (Gv 18,33-37): il regno di Cristo non è di questo mondo, secondo l’evangelista.
Allora chi sarebbe Gesù? Un re in visita, un dignitario straniero? In questo senso è vero, avrebbe dovuto essere accolto con gli onori del caso, ma questo avrebbe sancito la sua estraneità alla nostra storia. Ogni dignitario straniero in visita, infatti, dopo gli incontri di rito se ne torna al suo paese. E se invece avesse avuto qualche altra pretesa non sarebbe forse giustificata la reazione dell’impero, di Erode, che teme per l’avvento di un altro re, anche se, come diciamo spesso nella predicazione, e come recita l’inno dei vespri dell’Epifania: «Non toglie il regno umano chi dà il regno dei cieli»? E’ anche vero, di nuovo, che non si tratta semplicemente di realtà mutuamente estranee. Il regno di Cristo non è di questo mondo, ma è in questo mondo e per questo mondo, come del resto lo sono i discepoli (cf. Gv 17, 11-14), il regno è come il seme gettato e nascosto (cf. Mc 4,26), intessuto di relazioni non sempre manifeste e visibili. Sono gli ascoltatori, i cercatori della voce di verità la materia prima del regno, forse neppure sempre e totalmente consapevoli, come lo sono da sempre i pellegrini di ogni sentiero. Ecco perché contemporaneamente la signoria di Cristo è così nascosta e quotidiana e così pericolosa per i dittatori di ogni tempo.
*Cappellano del carcere di Prato