La pecora, la moneta, il figlio: cosa vale davvero
La liturgia di oggi ci offre un panorama di riflessione molto vasto e ricco, specialmente il brano evangelico che racchiude tre parabole fra le più significative (Lc 15, 1-32).
Non è facile limitarsi a un tema di riflessione ma, avendo a disposizione uno spazio limitato, forse potremmo individuare un concetto moderno e pervasivo che si snoda in questi brani, ovvero l’economia. È forse un po’ di moda ricondurre tutto a questo ambito, dal terrorismo, ai problemi ambientali, al disagio sociale, alla diminuzione della religiosità, ma credo che in questa liturgia il tema del valore, anche economico, emerga chiaramente.
La moneta da ricercare con attenzione, la pecora che non ci si può permettere a cuor leggero di perdere, motivano l’azione dei protagonisti. Ci parlano di persone concrete che non vivono d’aria, che sudano la loro vita e conoscono il valore delle cose. Ma come sappiamo anche da uno sguardo superficiale al giornale, i valori possono essere molto fluttuanti. Ciò che era importante ieri oggi non lo è più e altri valori sono saliti alla ribalta. Il pastore si può trovare in miseria non perché abbia perduto tutte le pecore ma perché la sua attività non è più competitiva ed è scivolata fuori dal mercato, e anche la moneta perduta può diventare come i centesimi di euro che pesano solo in tasca e che a volte non ci si prende la briga di raccogliere da terra. Cose che succedono, ma che diventano ancora più gravi quando è la vita stessa dell’uomo che è pesata con gli indici del mercato.
L’Apocalisse descrive Babilonia condannata alla distruzione con un’immagine mercantile: nella descrizione dei tanti traffici della grande città, immagine a prima vista positiva e vitale, nella lista dei beni oggetto di scambio, come una ventata gelida e mortifera a un certo punto arrivano «gli schiavi e le vite umane» (Ap 18,13). Il confronto con la situazione dei nostri giorni è anche troppo facile: come si fa a non vedere che le persone accampate alle frontiere sono trattate come merce senza valore, della quale nessuno sa cosa farsene, o merce di scambio fra governi e partiti per ottenere un qualche contraccambio in altri settori?
Cosa c’entra questo col Vangelo? Il figlio «prodigo» non ha nessun posto nella visuale del fratello maggiore, è un bene bruciato, un titolo tossico di cui ci si deve solo liberare. Del resto lui non ha investito nel fratello, mentre il padre guarda le cose diversamente. Per lui (continuando col linguaggio economico) il figlio è un bene che si rivaluta nel tempo, per il quale si può sacrificare il vitello grasso, il suo valore è agganciato a un capitale che è semplicemente, il suo amore di padre, la sua dedizione. È il capitale al quale fa riferimento Mosè nella prima lettura (Es 32, 7-14), la fedeltà di Dio, e che lo convince a riaprire un credito verso il popolo dalla dura cervice; lo ritroviamo in Paolo, bestemmiatore, persecutore e violento ma che ottiene una grazia sovrabbondante, attinta dalla sua infinita misericordia (1Tim 1,12-17).
Di fronte al tentativo sempre ricorrente di trasformare il Dio libero e misericordioso in un idolo per giustificare le proprie visuali distorte, ci sembra quasi di vedere il padre del vangelo scuotere la testa e dire anche a noi: «ma non ti accorgi che tutto è tuo?».
*Cappellano del carcere di Prato