La Pasqua sconvolge le nostre certezze
La settimana che è compresa tra la Pasqua e la domenica successiva, l’Ottava, potrebbe esser considerata, dal punto di vista liturgico, come una sola grande festa, anche se già dal Lunedì dell’Angelo la tensione tende in genere a smorzarsi e non sempre è facile, anche nelle domeniche successive, tenere alto il «tono» del tempo pasquale nelle celebrazioni. Le motivazioni possono essere molte e non è il caso di parlarne in questa sede, piuttosto possiamo notare come questa settimana sia racchiusa come fra due parentesi di incredulità.
Nel Vangelo di Luca, proclamato nella Veglia (Lc 24,1-12), viene sottolineato come la testimonianza delle donne di ritorno dal sepolcro sia reputata dagli apostoli come un vaneggiamento; Pietro si reca comunque al sepolcro e sembra quasi di cogliere una sfumatura di svogliatezza, uno sbuffo del tipo «facciamo anche questa!» (ben diverso il racconto della corsa a perdifiato narrata da Giovanni nella Messa del giorno [Gv 20,1-9], ma si tratta di prospettive diverse), mentre la domenica successiva ascolteremo, come ogni anno, l’episodio dell’incredulità di Tommaso (Gv 20,19-31).
L’annuncio pasquale, che pur trasformerà gli apostoli, Pietro in particolare, in una vera «icona» di Cristo (cfr. At 5,12-16; 1a lettura Ottava) è racchiuso in questa parentesi di incredulità. Non credo sia giusto passare troppo facilmente sopra questo fatto, come se si trattasse di un semplice smarrimento momentaneo. Certo, lo è stato, ma è anche un segnale di come l’evento pasquale sia sconvolgente per il mondo dell’uomo; è come se le carte in tavola fossero di nuovo rimescolate, tutta la fatica nell’affrontare il dramma della passione, il dolore per la perdita del maestro, che costituisce comunque un punto fermo, fosse vanificata. E non solo perché l’annuncio della resurrezione contrasta con l’esperienza umana che ci dice, con le parole della saggezza popolare, che a tutto c’è rimedio tranne alla morte, ma perché questo ci porta in una terra sconosciuta, della quale non possediamo mappe, né misure. E infatti Cristo non è semplicemente tornato in vita ma vive una vita radicalmente diversa, che proietta gli apostoli ei discepoli di ogni tempo in situazioni di frontiera.
La morte è vinta, ma ciò non toglie che Giovanni, assieme ai fratelli, viva nella tribolazione la sua perseveranza nel regno e la testimonianza resa a Gesù (cf. Ap 1,9-19; 2a lettura Ottava). Del resto la Pasqua non ci ha forse introdotto in una nuova creazione, tuttora in corso, con tutte le caratteristiche di «cantiere», di realtà definitive mescolate ad altre provvisorie come accade nella messa in opera di ogni progetto? Pietro parlerà dei credenti come «edificio» di Dio, di pietre vive (cf. 1Pt 2,5), una realtà dinamica ma che procede comunque coi ritmi e le difficoltà della storia. Anche la conclusione del vangelo di Giovanni rimane aperta: non è stato detto tutto, volutamente, non si può bypassare l’esperienza della fede, dell’affidamento quotidiano nella speranza a colui che è il Primo, l’ultimo e il vivente. Ecco perché la Pasqua ci chiederà sempre lo sforzo di riconoscere il Cristo nel pellegrino che cammina accanto a noi, come i due di Emmaus (cf. Lc 24,13-35; Messa vespertina di Pasqua), di invitarlo a restare con noi mentre scende la sera, per riconoscerlo ancora una volta nello spezzare il pane.
*Cappellano del carcere di Prato