La parabola del padre e dei due figli
Il brano di vangelo che la Liturgia offre questa domenica, a nutrimento della nostra fede, è il più noto del libro di Luca, considerato come l’evangelista della bontà e della mansuetudine di Cristo. Di questa bontà misericordiosa di Gesù, il capitolo quindicesimo del vangelo lucano costituisce il centro e il vertice.
Potremmo dire che è la parte nella quale splende in modo tutto particolare, la misericordia di Dio. In verità il capitolo riporta tre parabole sulla misericordia: la prima è quella della pecora perduta, la seconda della dramma (denaro) persa, la terza quella del figlio spendaccione che ritorna a casa, dopo aver sprecato in divertimenti tutto quanto aveva. Eppure anche le altre due parabole hanno la loro importanza, anche la seconda delle due, che è la più trascurata. Infatti, la parabola della pecora perduta ci è rimasta nella memoria fin dalla nostra fanciullezza, quando ci fu narrata per dirci quanto e come ci ama Gesù.
La seconda invece, che ha come protagonista una donna di casa che cerca una moneta perduta, è la più tralasciata e, per questo, la meno conosciuta. E’ certo che la prima e la seconda parabola, sono costruite in parallelo.
Se sostituiamo il pastore e la pecora con la donna e il denaro, ci accorgiamo che la costruzione delle due parabole è la stessa: la ricerca preoccupata e determinata del pastore e della donna, la gioia del ritrovamento, la chiamata dei vicini a gioire insieme. Per questo, considerando l’una il doppione dell’altra, siamo portati a sorvolarne una, specialmente la seconda. Chiediamoci: ma ciò che noi giudichiamo doppione, non potrebbe essere un invito a fermarsi il doppio sull’insegnamento proposto perché troppo importante per la nostra vita di fede?
Torniamo alla parabola del figlio perduto e ritrovato. Dicevo che è la più conosciuta, ma quella dal titolo più incerto. Il titolo che tutti conosciamo, perché tradizionale, è quello di «Parabola del figliol prodigo» (poi, magari, non ricordiamo cosa voglia dire «prodigo»); un altro, molto simile, è «Parabola del figlio perduto e ritrovato».
Benedetto XVI nel suo primo volume su «Gesù di Nazaret», preferisce quello di «Parabola dei due figli e del padre» : perché lo vede più aderente alla realtà storica, perché i protagonisti sono tre, perché permette di intravedere anche Gesù come protagonista e, infine, perché con questo titolo si presta meglio ad una applicazione che va ben aldilà della storia contingente. Luca, infatti, scrive che Gesù dice la parabola (le tre parabole) agli scribi e ai farisei che mormoravano su di lui perché «accoglie i peccatori e mangia con loro».
Gli scribi e i farisei comprendono bene (basta vedere altri testi evangelici) che i pubblicani e i peccatori sono rappresentati dal figlio più giovane che va via di casa, ma poi vi ritorna accolto (secondo loro immotivatamente) dal padre e rimesso nella sua dignità di figlio, e che loro sono rappresentati dal figlio maggiore riluttante a entrare nella («sua» ?) casa, quando viene a sapere che il padre fa festa perché il figlio perduto è stato ritrovato. La parabola è narrata da Gesù perché proprio i farisei e gli scribi accettino l’invito a entrare in casa e condividere la gioia del padre. Domanda: e noi, quale dei due figli ci sentiamo di essere?
Accennavo sopra che la parabola ci parla anche di Gesù: in che modo? Certo in modo indiretto, ma ugualmente rilevante. Gesù fa capire ai farisei e agli scribi che lui fa quello che fa il padre (Padre «suo» e Padre loro). Pertanto, ciò che il padre fa nella parabola, è ciò che Gesù fa accogliendo i peccatori e i pubblicani e mangiando con loro.
Chiudo il commento con quest’ultima annotazione: se più volte nella vita, ci ha confortato il perdono di Dio, dandoci gioia e forza per rialzarci e continuare il cammino della fede, non possiamo e non dobbiamo essere gelosi se Dio fa altrettanto con ogni altro suo figlio e figlia, che sono, e non per caso, nostro fratello e sorella.