La «nudità» dell’Eucarestia
La solennità del Corpo e Sangue del Signore ci ripropone temi già incontrati nella settimana santa e nel tempo pasquale: il pane spezzato dell’ultima cena (cf Mc 14, 22-25), quello condiviso con i discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,30), secondo qualche commentatore anche il pane offerto sulla riva del lago dopo la pesca (cf. Gv 21,9), sottolineano la presenza di Cristo veicolata da questo elemento. Potremmo obiettare che in questi casi la presenza di Cristo era, per così dire, duplice, il pane veniva spezzato da lui stesso presente visibilmente, mentre invece il pane eucaristico delle nostre celebrazioni è caratterizzato dal nascondimento: come canta l’inno «Adoro te devote», sulla croce si era eclissata la divinità di Gesù, ma nell’eucarestia è nascosta pure la sua umanità.
Ma anche nei momenti ricordati l’eucarestia non è affatto un di più, un segno puramente simbolico sovrastato dall’ umanità visibile di Cristo o dalla sua condizione di risorto, è vero piuttosto il contrario: l’eucarestia rende percepibile il Cristo, apre gli occhi alla sua presenza, o, come nel caso di Giuda (cf. 13,27), ne oscura definitivamente la comprensione. Proprio la «nudità» dell’eucarestia ci parla della pienezza di Cristo, la festa di oggi è perciò caratterizzata da questa dimensione relazionale, affettiva, una sorta di sfida che ci chiede di metterci in gioco.
Storicamente essa nasce in un contesto devozionale, nel tanto vituperato medioevo, al punto che anche voci autorevoli a volte tendono a mettere in guardia riguardo a celebrazioni dal sapore troppo intimistico, per non dimenticare che l’eucarestia è il pane del cammino, non è tanto lì per essere adorata ma per essere mangiata, realizzando in se stessi un cammino di crescita e di sequela. Quello del devozionalismo può essere anche un rischio reale, ma se devozione significa invece coinvolgimento, adesione, desiderio del volto del Signore (cf. Sal 26,8), non possiamo farne a meno.
L’eucarestia, nella sua nudità, cui accennavo prima, si incarica di mantenere sobrio l’atteggiamento del credente. Non è un sacramento che colpisce i nostri sensi, non vi sono effetti speciali, la semplicità e la sua stessa fragilità lo identificano. L’idolo tende a meravigliare, a intimorire, la statua d’oro (cf. Dn 3,12) si ricicla in ogni tempo e latitudine. La piccola eucarestia ha solo quei raggi di latta dell’ostensorio , assolutamente superflui del resto, ma si presenta a noi come un frammento che racchiude l’infinito e contro il quale possiamo solo sbattere la fronte oppure accoglierlo nelle nostre mani e nel silenzio del nostro ciarlare. È un frammento intorno al quale si può ricostruire tutto un mondo.
Mi è tornata in mente la scena finale del film «La storia infinita», quando il protagonista e la bimba regina rimangono al buio, dopo che il nulla ha travolto tutto il loro mondo, con un granello luminoso di sabbia fra le mani e da quello il ragazzo riparte per ricostruire tutto. Credo che l’Eucarestia (senza voler mancare di rispetto) abbia questa funzione: è un frammento che contiene il tutto, principio da cui ripartire per una vita nuova. Essa non è, come nel film, il frutto della nostra fantasia ma ci porta la fantasia di Dio, il suo pensiero e il suo progetto; la lente attraverso la quale guardare la nostra realtà; il silenzio che mette in scacco il profluvio di chiacchiere che intossica il mondo, la «rissa delle lingue» (cf. Sal 30,21) dei venditori di verità a prezzo di saldo.
*Cappellano del carcere di Prato