La novità di Cristo sta nella carità

Siamo ormai giunti al termine dell’Anno liturgico e, oggi, ultima domenica prima dell’Avvento, celebriamo la festa di Cristo Re dell’universo. Questa celebrazione ci ricorda che noi apparteniamo a Lui completamente.

Nella prima lettura, il profeta Ezechiele, ci presenta questo re come un buon pastore che va in cerca delle sue pecorelle. È il pastore che emette un giudizio su montoni e capri: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata. Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri» (Ez 34,16- 17).

Nel Vangelo comprendiamo questa verità. L’evangelista, ci presenta un messaggio escatologico, fondato sul giudizio. Gesù si presenta come re e giudice, dividendo le pecore dalle capre, «Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,32-33) ma la novità di Cristo sta nella carità. Parole forti quelle di oggi, che non sono date per terrorizzarci ma responsabilizzarci. Ciascuno di noi, oggi, è chiamato a riflettere sulla misericordia e sulla carità che Cristo dona per essere responsabile e credibile nel mondo. Ciò che aiuta a vivere questo è l’amore. La fermezza delle parole di Matteo, mette ciascuno di noi, alle strette. Ci pone in un atteggiamento riflessivo e ci aiuta a interrogarci sul nostro cammino, su quali passi compiamo verso la vita nei confronti del Signore e degli altri. Il giudizio di Dio scruta il nostro misurare gli altri, il nostro essere indifferenti ai poveri, ai piccoli, ai bisognosi, agli immigrati, agli ammalati. Il giudizio di Dio giudica la nostra indifferenza, la nostra freddezza e chiusura. Una cosa è certa: saremo giudicati sulla carità.

In questo testo sono tanti i particolari da notare, oggi ci soffermiamo sui due dialoghi che Gesù instaura prima con chi sta a destra e poi con quelli che stanno a sinistra. È Gesù che apre il discorso con una sentenza di benedizione o maledizione. Che cosa vuol dire essere benedetti? È partecipare alla sua stessa identità, in questo caso è appartenenza definitiva al regno dei cieli preparato da Dio Padre, preparato sin dall’origine e che, ora nel momento escatologico, si realizza. I benedetti sono tali perché sono attenti a situazioni di bisogno, di emarginazione dove il Figlio di Dio ha avuto bisogno di loro. Fame, sete, accoglienza, il rivestire le nudità umane, l’andare verso chi è povero ma non solo economicamente, con la presenza, con l’amore. Questi uomini erano sì consapevoli di aver aiutato, di esser stati presenti ma non avevano inteso che avevano aiutato il Signore. «Signore quando?» Qui avviene un processo d’identificazione tra Lui e chi è nel bisogno, tra il Divino e l’umano. Quando tutto ciò che hanno fatto, è stato rivolto ai piccoli, ai poveri, quando vi è stata attenzione verso chi non ha voce. Qui Matteo pone l’attenzione sui poveri che, agli occhi di Gesù, sono i suoi fratelli più piccoli.

Poi Gesù si rivolge a quelli di sinistra chiamandoli maledetti. Che cosa vuol dire esser maledetti? Vuol dire prendere le distanze, rompere un dialogo, un rapporto filiale, amicale con Dio. La maledizione è per chi ha fatto il contrario dei benedetti. Non hanno avuto compassione, non si son accorti dei poveri, dei bisognosi, dei sofferenti. Sono coloro che hanno deciso di non condividere la vita di Dio. Il racconto si chiude con una sorta di sentenza: punizione eterna – vita eterna.

Oggi, in questa festa solenne, siamo chiamati a riflettere sul come ci rapportiamo agli altri, al Signore. È oggi, nella storia che si dipana quotidianamente, che siamo invitati a essere pane spezzato, dono donato, attenti al Signore che passa nel fratello/sorella. Sarà decisiva la qualità della fede operata/operante nell’accogliere la salvezza donataci.

Suor Tiziana Chiara