La memoria della Passione assorbe la vita dei cristiani
Con la celebrazione della Domenica delle Palme si apre la Settimana santa, cuore dell’intero anno liturgico, periodo così intenso e coerente nei suoi elementi da costituire quasi una sola, lunghissima celebrazione. Non è raro, inoltre, che comunità e parrocchie propongano momenti di preghiera ulteriori: via crucis, adorazione notturna, liturgia delle ore… quasi per non perdere neanche un istante di questo tempo utile per fissare il nostro sguardo su Cristo e il suo mistero di salvezza.
Qualche anno fa leggendo il «Diario di viaggio» di Eteria, importante testo patristico che descrive, fra l’altro, la liturgia della Settimana santa nella Gerusalemme del IV secolo, fui colpito dal fatto che essa scandiva talmente la vita dei fedeli da assorbirla quasi totalmente, almeno in quel lasso di tempo, in questa memoria vivente, quasi un ingresso del mondo definitivo e assoluto di Dio nella precarietà e nel limite del quotidiano. Ora è vero che i tempi sono cambiati e che il mondo dell’uomo procede per la sua strada senza fermarsi a considerare questa settimana come un tempo radicalmente diverso e che, ad esempio, il Venerdì santo a Prato non suonano più le sirene della fabbriche alle tre del pomeriggio come udivo da bambino (sia perché non ci sono più fabbriche sia perché la visione cristiana di questo tempo santo non è più condivisa da tutti), comunque una certa «pretesa» della liturgia della Settimana santa di essere al centro del tempo dell’uomo e il suo cammino, permane.
Essa non si lascia facilmente confinare nell’ambito di un cerimoniale di qualche chiesuola persa nelle sue illusioni. Cristo non porta nel mondo una filosofia o una teologia (anche se poi potranno scaturirne) ma una presenza, lui stesso che tocca nervi scoperti, è incontrato innanzitutto come uomo (anche se poi potrà essere riconosciuto come Dio) e quindi non è un fantasma, occupa spazio, entra in relazione con il mondo, e perciò potrà essere accolto o rifiutato ma non ignorato, se non ignorando l’umanità stessa. Egli mostra in sé stesso cos’è l’uomo, di nuovo non un concetto antropologico, ma la realtà della sua fragilità, fino ad essere quasi non più in figura di uomo, l’esatto contrario del superuomo, nella quale ognuno può rispecchiarsi al di là delle fedi e delle ideologie perché tutti siamo fragili, inciampiamo e moriamo ogni giorno.
In questo senso il crocifisso è davvero l’uomo universale, il distillato della nostra creaturalità e non viene reso a lui un gran servizio sbandierandolo in contrapposizione ad altre fedi o altre culture, rendendolo un misero gagliardetto per rivendicazioni identitarie. La croce è l’identità che ci accomuna tutti, nel modo più trasversale che esista, e verso tutti è protesa, perché è uno sguardo aperto sull’abisso del dramma umano e, per chi crede, sull’abisso infinito del mistero di Dio. Perciò ora e sempre la croce destabilizzerà i nostri progetti, ci chiamerà a uscire fuori da noi anche quando non ne abbiamo alcuna intenzione, quando abbiamo la tentazione di asserragliarsi in difesa di fronte a tutto e a tutti, di liquidare con noia o insofferenza gli inviti alla fraternità, al perdono, alla pietà, alla compassione, come residui bigotti e clericali che hanno fatto il loro tempo. Ma non possiamo scansare la croce, né quelle braccia aperte, né la parola che essa ci manifesta, unica pietra di paragone (e di scandalo) per le nostre vite: «amatevi come io ho amato voi…» (Gv 13, 34).
*Cappellano del carcere di Prato