La grammatica dell’amore

14 marzo, 4ª domenica di Quaresima. Letture: (Gs 5,9a, 10-12; Cor 5,17-21; Lc 15, 1-3,11-32)di GIANCARLO BRUNIEremo delle Stinche – Panzano in Chianti

1. Il fariseo e lo scriba che dimorano nell’uomo di ogni luogo e tempo trovano difficoltà a immaginare un Dio che non nega compagnia, tavola e parola all’ingiusto, sicuramente il Dio di Gesù che in Gesù si lascia avvicinare e ascoltare da pubblicani e peccatori. Ed è proprio a coloro che si ritengono giusti che Gesù narra una parabola: «Un uomo aveva due figli».

2. La prima parte del racconto si sofferma sul rapporto figlio più giovane-padre a partire dalla descrizione dell’itinerario umano del primo, scandito da verbi precisi che segnano altrettante tappe del suo nascere a uomo. Il tutto inizia con un «dammi-partì» (Lc 15,12-13), è il momento della decisione del divenire titolari della propria esistenza lontani da ogni tutela paterna e familiare. Il padre dà e lascia andare, non hanno senso rapporti costretti. A questo inizio segue il momento contraddistinto dallo «sperperò» con prostitute, dal «cominciò a trovarsi nel bisogno», dall’«andò a mettersi al servizio» e dall’«avrebbe voluto saziarsi» (Lc 15, 13-16). È la registrazione di un fallimento: dai beni alla penuria, dai molti amori all’assenza di una donna amata che riama e dalla condizione filiale a quella servile. La terza tappa è segnata dal «ritorno in sé -disse a sé- mi alzerò – andrò – dirò» (Lc 15,17-20). «Quando gli Israeliti, recita un proverbio rabbinico, sono costretti a mangiare le carrube, si convertono». Conversione nel nostro caso come un «venire a sé», un «ritornare a sé» e un «dire a sé» a partire dal proprio disagio: «ho fame», e dalla ammissione della propria responsabilità: «ho peccato», che diventano nostalgia: «ritornerò da mio padre» e decisione: «si mise in cammino e ritornò». Il «rientrare in sé» come momento di discernimento della propria situazione interiore e esteriore è condizione imprescindibile per «uscire» da situazioni insostenibili, per riprendere cammini che possono condurre a conclusioni inimmaginabili, per il figlio più giovane l’approdo a una nuova e inaudita conoscenza del padre e di sé stesso. È la tappa della rinascita. Si aspettava, attraverso la via della ammissione della propria colpa e indegnità (Lc 15,21), un posto da salariato e trova un padre che ancora lontano «lo vede», ne «ha compassione», «gli si getta al collo», «lo bacia» (Lc 15,20) e lo reintegra nella sua dignità di figlio regale con la veste preziosa, l’anello del potere, i sandali della libertà e il vitello grasso delle grandi occasioni.

Siamo al cospetto della grammatica dell’amore di un padre che altri non è che il Padre di Gesù che ai pubblicani e ai peccatori, riassunti nel figlio minore, ricorda l’urgenza di uscire da ogni logica meritocratica e minimale: merito almeno il posto di salariato confessando il mio peccato e riconoscendo di non essere degno della filialità. L’amore che reintegra non lo si merita mai, ma lo si accoglie come dono gratuito lasciandosi sommergere dalla sua folle esagerazione.

3. Questa parola oggi proclamata nelle assemblee liturgiche risveglia il pubblicano e il fariseo che convivono in noi a entrare nella logica del Padre di Gesù, quella del puro dono d’amore gratuitamente ricevuto e gratuitamente travasato che rende la vita autentica e gioiosa, il solo a far risuscitare i morti e a ridare dignità regale agli smarriti.