La fecondità dell’accoglienza
La liturgia di questa domenica, nel presentarci la vicenda dell’incontro di Eliseo con la donna di Sunem (2Re 4,8-17; 1a lettura) ci ripropone uno dei temi biblici più classici, ovvero la «fecondità» dell’accoglienza. Non è difficile, infatti, trovare somiglianze con alcuni episodi chiave dell’antico testamento: l’incontro di Abramo con il Signore alla quercia di Mamre (cf. Gn 18,1-10), quello di Elia con la vedova di Zarepta (cf. 1Re 17, 1-16) e altri ancora.
Non si tratta però del semplice invito a praticare una delle virtù più importanti della vita comune, quella dell’ospitalità, che pure viene ampiamente raccomandata anche nella predicazione apostolica, segno di fraternità e di carità vissuta (cf. Rm 15,7).
Il brano evangelico di oggi (Mt 10, 37-42) inserisce un elemento importante in questo processo, quello del riconoscimento. Quale può essere il significato e l’importanza dell’accoglienza del profeta, del giusto, del piccolo in quanto tali (alla lettera: nel loro nome); e cosa significa soprattutto la promessa della ricompensa, diremmo oggi, «calibrata» sul loro nome? Credo significhi essere toccati, trasformati da questo gesto di accoglienza e riconoscimento, fin nel proprio intimo. Significa uscire da se stessi e diventare simili, essere associati all’ essenza dell’ospite. Può sembrare un discorso contorto ma, se ci pensiamo, significa uscire dall’idea di una carità, solidarietà, accoglienza «neutra». Un tale tipo di azione non ha significato nell’annuncio evangelico.
A volte, o anche spesso, può accadere che dietro a gesti di questo tipo si nasconda la ricerca di una conferma su se stessi o i propri schemi. La mentalità mafiosa che professa grandi gesti di riverenza o di accoglienza a sacerdoti e vescovi ne è un esempio: non si cerca alcun cambiamento ma la conferma del proprio assetto. Una carità, una solidarietà verso i poveri che si limiti a glorificare il donatore o la bontà della società, senza mettere in questione il proprio impianto è un altro esempio. Se ci facciamo caso anche i gruppi o le forze più reazionarie affermano, in qualche modo, l’importanza dell’aiuto o del sostegno al povero, magari accuratamente selezionato in base ai criteri più diversi. Ma non certo di arrivare a identificarsi con il povero, o il giusto, o il profeta in modo da mettersi alla loro scuola, né di ottenere la «loro» ricompensa (fra l’altro spesso unita a persecuzioni – cf. Mc 10,30-). La ricompensa, eventualmente, deve essere la «nostra», o perlomeno qualcosa che non ha a che fare con questa relazione, una ricompensa neutra e spendibile dove più aggrada, come i gettoni d’oro delle lotterie, dei quali ognuno fa quel che vuole.
La ricompensa del vangelo, invece, è spendibile solo all’interno di relazioni nuove, dentro un processo di crescita, maturazione e trasformazione della persona. Non si tratta neppure semplicemente di una considerazione etica, sui doveri morali del credente, da prendere solo come una pia esortazione; questa impostazione riguarda tutto l’impianto della vita cristiana: l’idea di una relazione che trasforma la persona, che la unisce in un rapporto vitale con l’altro la si ritrova nell’annuncio di Paolo sul battesimo (Rm 6,3-11; 2a lettura). Stesso discorso: la salvezza, l’ingresso in una vita nuova, la partecipazione alla vittoria di Cristo sulla morte si realizza nella sua accoglienza; ma come sarà possibile accoglierlo se non nel profeta, il giusto, il piccolo e tutti i fratelli che realizzano il «chi accoglie voi accoglie me»?
*Cappellano del carcere di Prato