La compassione di Gesù per le pecore disperse
La liturgia della parola di oggi si apre con una violenta reprimenda contro i pastori malvagi (Ger 23,1-6), un testo che potrebbe essere attribuito a un qualche pensatore anticlericale se non fosse contenuto in uno dei più importanti libri profetici. Mi si potrebbe dire che il profeta in realtà non se la prende con l’istituzione ma con alcuni elementi devianti e che non mette in questione l’intero assetto dottrinale.
Rimane però, ugualmente, nell’aria la sferzante minaccia di quel «guai» che non si può liquidare facilmente. Non si tratta, infatti, di un rimprovero motivato dalla constatazione delle fragilità che i pastori manifestano, le incongruenze, le contraddizioni e le piccinerie che caratterizzano la loro vita, come quella di ognuno. Qui c’è molto di più, una positiva azione di depistaggio, l’indirizzare il gregge verso la dispersione, il disinteresse e la manipolazione. Non si tratta solo di essere guide incaute, inesperte, incapaci, ma di ostacolare attivamente il cammino dei più piccoli. Gesù lo dirà esplicitamente ribadendo il suo «guai» ai farisei che hanno impedito l’ingresso alla via della sapienza a chi voleva entrarvi (cf. Lc 11,52).
Quello che è un errore in cui il pastore, incaricato da Dio, può incorrere (per limiti e fragilità personali) diventa lo scopo da raggiungere; lo sfruttamento dell’altro, la sua oppressione a vario titolo, può diventare un ideale accettabile e attraente. Anche in questo caso ciò non significa che tutta l’istituzione sia così, ma il rischio della diffusione di un «virus» così letale dovrebbe far alzare il livello di allarme. Le difficoltà incontrate da papa Francesco, ma anche già da papa Benedetto, negli sforzi di riforma per contrastare la corruzione, la sete di potere e denaro, gli odiosi crimini perpetrati contro i minori, la dicono lunga su come questo cancro abbia attecchito. Non è solo la caduta di qualcuno, che può essere richiamato al dovere con un robusto scossone, ma una mentalità di ricerca del proprio profitto che può avvelenare il grande dono della carità pastorale, unica motivazione che dovrebbe informare di sé ogni rapporto di chi presiede la comunità con tutti i suoi membri, rendendola un dato utopistico e puramente teorico. L’anima di ogni autentica carità pastorale è la compassione di Gesù per le pecore disperse annunciata dal vangelo di oggi (Mc 6,30-34), il farsi tutto a tutti di Paolo (cf. 1Cor 9,22), una passione che ha a cuore le sorti di ogni uomo e che, sempre come Paolo, gioisce per l’opera compiuta da Cristo, l’abbattimento del muro di separazione fra uomo e uomo (Ef 2,13-18; 2° lettura).
Può essere perfino troppo scontato fare un confronto con la passione per i muri che sembra essere rinata nel nostro mondo. Ma se non si possono negare le difficoltà di questo ideale universale, la fatica di trovare passi concreti per la sua realizzazione, non si può neppure mettere da parte questo «sguardo attivo» sulla realtà innescato dal Cristo. Riparlare di vicini e lontani, di dentro e di fuori, è un’inversione di rotta che ci porta ad allontanarci da Lui. Per dirla chiaramente, non accogliere lo straniero, illudersi di ritirarsi in una fortezza militarizzata non è tanto una mancanza, una disubbidienza al Signore che ci invita all’accoglienza, un peccato più o meno veniale a seconda dei punti di vista, ma significa perdere la capacità di vedere la realtà con gli occhi di Cristo, la stessa perdita di riferimento che può trasformare in lupo colui che era stato costituito da Dio come pastore.
*Cappellano del carcere di Prato