Isaia, Pietro, Paolo: gli «inviati» del Signore
Nelle letture di questa domenica notiamo una particolarità che si verifica abbastanza raramente, ovvero che vi sia una concordanza fra tutte e tre riguardo a un determinato tema o argomento. Oggi ascoltiamo l’invio in missione del profeta Isaia, che nell’incontro con Dio sperimenta la sua indegnità ma anche una trasformazione del cuore che lo porta addirittura a proporsi: «Ecco, manda me!» (Is 16,1-8; 1a lettura); nel Vangelo è Pietro che riconosce la sua povertà di peccatore dopo la pesca miracolosa, mentre il Signore apre a lui una nuova via, quella di diventare pescatore di uomini (Lc 5,1-11); infine anche la seconda lettura ci presenta la testimonianza di Paolo che si sente chiamato da Cristo ad essere annunciatore della sua risurrezione, nonostante la consapevolezza di essere l’ultimo fra gli apostoli, addirittura un aborto, per il suo passato di persecutore (1Cor 15,1-11).
Abbiamo quindi, ovunque, l’apertura di una prospettiva nuova operata dal Signore nelle vite di persone che, da parte loro, non avrebbero particolari titoli di merito, associati a una missione grandiosa, un dono unico che è stato posto nelle loro mani. Vi sono poi reazioni particolari dei singoli soggetti: l’entusiasmo di Isaia, che può ricordarci certi guizzi giovanili di entusiasmo che forse anche noi abbiamo provato, quando abbiamo percepito che di fronte a noi si apriva una promessa di vita. Forse non abbiamo avuto visioni ma qualcosa, qualcuno, ha aperto i nostri occhi, ci ha fatto sentire che le nostre paure potevano essere superate, potevamo prendere il nostro posto nella vita, combattere per un ideale, portare il nostro contributo: una vocazione di qualche tipo, professionale, familiare, religiosa che spinge a rimboccarsi le maniche e a dire «OK ci sono anch’io, conta su di me». In Pietro, forse, la reazione è più contenuta, sappiamo, anche dal suo percorso successivo testimoniato da diversi passi evangelici, come la sua innegabile dedizione al Signore si scontrasse con fatiche, incapacità personali, propri punti di vista, e come questa chiamata sia maturata attraverso passaggi anche dolorosi, la paura, il rinnegamento, fino a diventare colui che, pur non possedendo niente, dona tutto quel che ha, Cristo, risanando nel suo nome lo storpio alla porta del tempio (cf. At 3,6). In Paolo l’esperienza del proprio limite diventa quasi un vanto, come altrove egli afferma esplicitamente (cf. 2Cor 11,30), ma non certo per sé stesso, piuttosto per l’opera di Dio che si compie in questo limite.
Se in Isaia il sentirsi insufficiente, mancante, è un fatto preliminare, un problema da risolvere prima di gettarsi nella mischia, e in Pietro un dato con cui confrontarsi nel cammino della propria maturazione, per Paolo è un elemento importante e imprescindibile. Certo, forse lo si capisce solo a posteriori, come rendimento di grazie per quello che Dio ha compiuto nella nostra vita, però è un elemento di grande novità e spessore nell’annuncio cristiano. Ci parla di un Dio che vuol avere a che fare con l’uomo nella sua condizione concreta, segnata da ferite e cadute, cicatrici e lentezze, ma al quale Egli affida la sua parola, in ultima analisi sé stesso. Un uomo zoppicante addirittura dopo la sua benedizione, come Giacobbe al torrente (cf. Gen 32,25-32), ma che riceve un nome nuovo. E’ quello che aveva compreso S. Francesco quando, alla domanda di frà Masseo «perché a te tutto il mondo viene dietro?» risponde «perché nessuno è più vile e insufficiente di me».
*Cappellano del carcere di Prato