Io sono colui che orienta
1. Spaesamento e disorientamento appartengono alla storia dell’uomo. La carovana degli sradicati dal loro paese di origine e dei recisi dal villaggio degli orizzonti di senso fa parte del paesaggio quotidiano. Questo esserci senza vie d’uscita e senza guide disinteressate genera quel senso diffuso di smarrimento che possiamo descrivere con le parole del profeta: «Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada» (Is 53,6), e dell’apostolo: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime» (1 Pt 2,25). L’esperienza di Israele e della Chiesa delle origini, esemplificazioni riassuntive della condizione umana, sa che l’assenza di luoghi, di ragioni e di saggi che aiutino a orientarsi nel giorno dato a vivere e nell’ora data a morire è un dato reale, nel contempo racconta della decisione di un Terzo di farsi compagnia ai senza sbocco aprendo scenari nuovi, indicando cammini di sicura umanizzazione. Leggiamo: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).Un insegnamento da parte di un Tu denominato non a caso «pastore» nel suo donarsi come guida e orientamento, compiutamente in quel «Sole che sorge per dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Sole venuto nella carne e che nel frattempo della storia continua, risorto, a venire come pastore ai sottoposti a capi il cui unico interesse è rubare e violentare corpi, menti e coscienze, e come porta aperta agli omologati a uno stagnante modo di pensare, di sentire e di vivere. Prigionieri dei loro recinti.
2. Punto di partenza per una corretta interpretazione delle similitudini del pastore e della porta sono la domanda rivolta a Gesù: «Tu chi sei?» (Gv 8,25), e la risposta data da Gesù: «Io sono il buon pastore- Io sono la porta» (Gv 10,11.7) che introduce negli ambiti della luce e della vita: «Io sono la luce del mondo- Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 8,12; 11, 25). Non a caso la parabola del pastore e della porta stà tra la vista restituita a un cieco dalla nascita e la vita restituita a un morto da quattro giorni, ne è la spiegazione. Egli è venuto a condurre oltre, ad aprire porte, a scrivere pagine inedite, a fare nuove le cose. Il tutto detto riferendosi in prima istanza (Gv 10,1.7.21)a quei capi dei Giudei che lo contestavano (Gv 8,48-59; 11,45-53), e in un linguaggio figurato proprio a un ambiente a cui è caro rivolgersi a Dio in questi termini: «Tu, pastore d’Israele, ascolta» (Sal 80,1), sì «Il Signore è il mio pastore su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce» (Sal 23,1-2). Un Dio-pastore premuroso al punto da non far mancare pastori suoi rappresentanti nel prendersi cura del suo popolo, con esiti alterni: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo» (Ger 23,1; Ez 34,1s). Fino all’invio del «pastore buono e bello» di nome Gesù, tale perché incarnazione compiuta e adempiuta dell’immagine del pastore secondo Dio, immagine unicamente comprensibile alla luce dell’orizzonte del dono. Tutto in Gesù è «dal» Padre il «guardiano»: sottinteso, e in conformità con l’insieme del Vangelo giovanneo, l’essere costituito pastore, l’essere inviato come pastore e il libero accesso al recinto delle pecore attraverso la porta principale aperta dal Padre-guardiano (Gv 10,1-2). Tutto in Gesù è «secondo» lo stile del Padre: il conoscere le proprie pecore (Gv 10,14), il chiamarle una ad una (Gv 10,3), il camminare davanti seguito da esse perché conoscono la sua voce e lui (Gv 10,4.14), l’essere la porta attraverso cui le pecore entrano e escono verso i desiderati pascoli (Gv 10, 3.9) e l’amarle fino al dono della propria vita: «Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11.17). Tutto in Gesù è «traduzione» della volontà del Padre, la vita dell’uomo :«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Il ritratto del pastore buono, icona visibile del Dio buono invisibile, è posto. In lui, come suggerisce il verbo «condurre fuori» (Gv 10,3), avviene un nuovo esodo: l’uscita verso la terra promessa della vita ove belle perché nella bontà sono la relazione con Dio, con sé stessi, con l’altro, con il creato e con l’eternità. Un uscire per poi rientrare nei recinti di vita diminuita o spenta spingendo verso pascoli di abbondanza, un uscire- entrare per la «porta stretta» (thura), l’amare la vita altrui in maniera così esagerata da offrire la propria. È la via della croce. Ed è proprio questa la discriminante tra il pastore buono e no: il secondo arreca morte, è un brigante, succhia vite, è un ladro, ed è al soldo dei potenti di turno, è un mercenario che sfrutta situazioni. È un cattivo maestro a cui Dio non apre porte anche se parla di Dio (Gv 10, 1.12-13).
3. Ai senza paese e ai senza orientamento di ieri, di oggi e di domani, privi di figure, di istituzioni e di valori di riferimento, persi e esposti come pecore senza guida e senza direzione, Dio dona un pastore-porta grande nell’amore (Eb 13,20; 1 Pt 5,4), capace cioè di vedere con compassione (Mc 6,34), di conoscere ciascuno e di chiamare ciascuno per nome dando corpo a sempre nuove generazioni dell’esodo. Il suo nome è «Io sono il vostro orientamento», colui che vi fa uscire, attraverso la via dell’amore come offerta di sé, dalla sponda senza futuro dei non sensi e approdare alla riva ricca di futuro dei significati, ove bella e buona è una vita da veduti, da conosciuti, da chiamati per nome e da amati fino alla commozione da un Tu che rende capaci di conoscenza, vale a dire di vedere, di chiamare per nome e di prendersi cura di quanti concretamente attendono occhi, voce, tenerezza e mani operose. Questo è il villaggio che il mondo attende, di questo la Chiesa dovrebbe essere memoria, annuncio e testimonianza, il segno che il passaggio dall’eravamo erranti senza bussola al siamo pellegrini orientati dall’Amore che dimora in noi diffuso attraverso di noi è possibile.