Investire bene i talenti
1. Tutto è dono. Lo è ciascuno con la vita che gli è stata data, con le doti naturali che gli sono state concesse e con il Vangelo che gli è stato posto nel cuore. Beni elargiti da un Tu (Mt 25,14) in maniera singolare, unica e irripetibile, a misura di ciascuno, a segno non solo del suo atto di amore per l’uomo ma altresì del suo atto di fede e di speranza nei confronti dell’uomo. Fiducia nell’affidargli i suoi beni, speranza in un buon investimento di quei beni. Saggio e beato è quell’uomo iniziato a questa conoscenza in cui sta la volontà di Dio e la sua verità. Il sapersi regalo-dono di Dio alla vita: «Ogni buon regalo e dono viene dall’alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1,17), destinato a sbocciare e fruttificare a vantaggio della vita: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Una vocazione di cui ciascuno dovrà rendere conto (Mt 25,19.31-46). E tutto ciò nel grazie, mai muoia la gratitudine; nel non vanto: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7); nella sua presunzione: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5), e nell’affidamento a colui che è in grado di portare a compimento l’opera iniziata (Fil 1,6): «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13), «Ti basti la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
2. È in questa ottica, di fiducia di Dio nell’uomo nell’affidargli un compito e di affidamento dell’uomo alla sapienza e alla potenza di Dio nello svolgimento di esso, nella consapevolezza che tutto sarà sottoposto a vaglio, che va letta la pagina evangelica odierna, una parabola in due parti.
Nella prima (Mt 25,14-18) si narra di un uomo che partendo per un viaggio consegna il suo capitale ai suoi servi perché lo investano. Cosa che fanno, raddoppiandolo, i due servi che hanno ricevuto rispettivamente cinque e due talenti, cosa che non fa il terzo che di talenti ne ha avuto uno. Costui si limita a sotterrarlo perché non venga rubato dai ladri. La seconda parte della parabola (Mt 25,19-30) racconta del ritorno del padrone dopo lungo tempo e del suo regolare i conti con gli affidatari dei suoi beni, un regolare che equivale a un giudicare, a un verificare la bontà o meno del lavoro svolto durante la sua assenza. Il tutto a voler dire che ciascuno dovrà rendere conto del dono di Dio che consiste nel duplicare l’amore ricevuto da Dio, vale a dire nel riversare sull’altro da sé il dono accolto in sé.
In questo consiste il talento ricevuto, ricevere-trasmettere amore, un bene prezioso, l’equivalente di diecimila denari, di cui Dio ha dotato i suoi esigendone la moltiplicazione attraverso una diffusione di esso fuori di sé, non limitata da condizione alcuna. Ove ciò accade i servi sono detti buoni perché fedeli all’adempimento del compito ricevuto, diffondere amore,e a tutti viene concessa la medesima ricompensa, partecipare alla gioia della festa eterna preparata per quanti hanno investito la vita nell’amore: «eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17). Drammatica al contrario è la situazione del servo definito malvagio e infingardo, cioè pigro e inoperoso, e illuminante è cogliere le ragioni sottese a un atteggiamento frutto di una falsa conoscenza di Dio, di sé e degli altri.
Un Dio concepito come un giudice duro e arbitrario nella sua pretesa di mietere dove non ha seminato, inaffidabile quindi. Se rapporto con lui vi deve essere non può che porsi in termini di paura e di calcolo: tanto mi hai dato tanto ti restituisco. Concezione che travisa radicalmente la verità di un Dio amante dell’uomo e pieno di fiducia e di speranza nell’uomo seminando sempre e ovunque amore per mietere sempre e ovunque amore. Concezione che impedisce la stessa verità di se stessi come eventi di una passione d’amore generati e inviati, nella non paura e nel non calcolo, a incendiare una terra che li attende per questo. Gli avvitati in sé che temono di uscire da sé e dalla loro gretta visione di Dio assunta a giustificazione del loro modo di porsi, di fatto finiscono per sotterrare se stessi come cosa preziosa di Dio a vantaggio del mondo. Non c’è futuro per questo modo di essere uomini e si finisce per perdere anche quanto avuto in principio, il germe dell’amore: «A chi non ha duplicato amore sarà tolto anche quello che ha avuto», mentre a chi moltiplica amore sarà dato ulteriore amore in abbondanza (Mt 25,29).
3. L’insegnamento è chiaro. Investe bene nella vita chi non si nasconde all’amore per l’altro, nella costanza di una fedeltà quotidiana aperta all’ora mai dimenticata dell’incontro facciale con l’Amore stesso che viene ad aprire la porta dell’eternità. Bene equipaggiato è il discepolo che sa coniugare presente e futuro: il tempo dato a vivere è reso dall’amore tempo riscattato dall’odio, è reso dall’attesa tempo redento dalla morte. Questo il messaggio delle parabole della vigilanza offerto alla nostra sveglia attenzione.