Impariamo a mettere ordine nel cuore!
Siamo stati creati per vivere vicino all’altro. Per l’intimità. E l’intimità è viversi dentro. Abbiamo bisogno di essere abitati e di abitare qualcuno. Dio irrompe nella nostra quotidianità con il suo annuncio sconvolgente per dirci: «Io ti sono intimo! Aprimi la porta». E lo dice con le parole dell’antifona di ingresso di questa domenica Gaudete: «Rallegratevi sempre nel Signore. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4.5).
La prima lettura ci invita alla gioia, alla felicità perenne, al giubilo. Perché c’è qualcuno che non solo guarisce gli zoppi, ma li fa persino saltare come cervi; c’è qualcuno che non solo scioglie la lingua del muto, ma la fa gridare di gioia! (cfr. Is 35,6). C’è qualcuno che non solo guarisce le fragilità, ma le trasforma in dono e benedizione. Dio è un Dio «esagerato»! Non si accontenta di guarire: trasforma le nostre ferite in punti di forza, se solo gliele doniamo. Mettere tutto nelle sue mani, allora, e donargli il nostro peccato, è «fargli spazio» perché questo vuoto sia riempito della Sua vita. Perché lui vuole esserci intimo. Vuole viverci dentro.
Lasciare che Dio ci svuoti, però, non è facile. Non riusciamo a sopportare il vuoto. Vorremmo essere sempre pieni di qualcosa. Ma solo il vuoto può essere riempito. Noi, però, ne abbiamo paura così come abbiamo paura del silenzio, della luce. Abbiamo paura anche della gioia. Perché la gioia arriva in una grotta vuota e povera; la luce di una stella illumina di sé solo la notte; la dolcezza del suono di uno strumento musicale riempie solo il silenzio. E Dio opera solo nel nulla.
Della grande figura di Giovanni Battista Gesù, nel vangelo, descrive la profonda rettitudine che fa di lui colui di cui lo stesso Signore ha potuto affermare: «Fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista» (Mt 11,11). Tuttavia, «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11). Perché nel Regno non si conta più sulle proprie forze, ma su quelle di Gesù. Sulla sua grazia che dona una nuova capacità di amare.
Ma come possiamo amare chi ci sta accanto? A volte, piuttosto, ci scopriamo capaci di escludere, di emarginare, di umiliare. Ci scopriamo pronti ad avvilire qualcuno, pur di innalzare noi stessi. Ci scopriamo capaci di rimarcare le debolezze del fratello, di metterlo in cattiva luce. L’uomo vecchio è sempre lì che sonnecchia, alla porta del cuore, e di tanto in tanto riprende il sopravvento.
In una pagina del famoso libro di J. M. Barrie, «Peter Pan», l’autore scrive che la mamma di Wendy, Gianni e Michele, i tre bimbi che volarono con Peter Pan nell’Isolachenoncè, ogni sera «riordinava i cervelli» dei suoi bambini, quando essi andavano a dormire. «Riordinare ogni notte i cervelli dei loro bambini, dopo che si sono addormentati, è uno dei lavori più importanti delle buone mamme». Esse riordinano i pensieri, i sentimenti e «quando vi destate il mattino, le cattiverie e i sentimenti pericolosi con i quali vi siete coricati sono stati piegati in modo da occupare uno spazio piccolissimo e riposto nell’angolo più remoto delle vostre menti. In bella vista, invece, bene esposti e sciorinati al sole, all’aria, stanno i pensieri migliori, pronti per essere indossati» (J. M. Barrie, Peter Pan, Mondatori, Milano 1996, pp.8-9).
Anche il cristiano dovrebbe imparare a mettere un po’ di ordine nel proprio cuore, ogni sera, prima di andare a letto! O, meglio, dovrebbe lasciare che sia Gesù a fare questo lavoro di pulizia interiore. Per poter indossare, il mattino seguente, la veste pulita dell’uomo nuovo. Una veste che si consumerà nel dono di sé agli altri e, consumandosi, diventerà sempre più nuova e pulita.
Lo Spirito effuso da Gesù sulla croce ci ha resi tutti membra dello stesso corpo. Siamo legati strettamente gli uni agli altri, tanto che San Giacomo ammonisce: «Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati» (Gc 5,9). Perché l’amore donato da Cristo riconosce nell’altro quella fragilità che appartiene alla mia stessa umanità. Le sue ferite sono le mie.
Se anche noi amassimo così, forse inizieremmo a vedere fiorire le vite dei nostri fratelli. Forse qualcuno, andando oltre l’imperfezione della nostra immagine, giungerebbe a conoscere l’Archetipo. Si sentirebbe amato. In quel momento, faremmo la scoperta che le ferite più profonde non erano quelle dell’altro, ma le nostre. Allora, finalmente vuoti e spogli, sentiremmo rivolte a noi quelle parole piene di speranza: «Rallegrati! Il Signore è vicino».
*Domenicane di Pratovecchio (Ar)