Il Vangelo, un annuncio che guarisce

La prima lettura di questa domenica (Gb 7,1-7) si apre con un’amara considerazione sulla vita dell’uomo, quella che «i suoi giorni sono come quelli di un mercenario». È una considerazione dal sapore assai moderno, nonostante risalga a svariati secoli fa, la ritroviamo nelle problematiche della filosofia contemporanea, ma anche nel sentire popolare.

Il mercenario è colui che trova il senso del suo agire unicamente nella retribuzione, sia esso un lavoro sporco, pericoloso, alienante, è la lettura della propria vita solo in chiave quantitativa, di beni ottenibili o meno, di consumo, al di là del senso, del valore intrinseco delle proprie azioni. È la perdita di riferimento ad altri valori che non siano misurabili, perdita a volte vissuta con angoscia e sconcerto, altre volte perseguita come unica realmente valida. Gli esempi di “cosificazione” della vita umana sono così numerosi che ognuno può scorgerli intorno a sé abbastanza facilmente. Giobbe è un esempio di come questa situazione sia vissuta in modo angoscioso, specialmente nell’accoppiata di due immagini opposte ma che danno il senso del circolo vizioso in cui può precipitare la vita umana: la notte che non passa mai, mentre i giorni della vita saettano come una spola. Quest’uomo è a disagio comunque si ponga, chiuso in un labirinto senza uscita. Un altro aspetto paradossale lo troviamo nella seconda lettura (1Cor 9,16-23), laddove Paolo, in sostanza, afferma: «la mia ricompensa è non aver ricompensa», due termini contraddittori ma dall’ampio respiro. Anche se  nei versetti precedenti  Paolo afferma la liceità di una retribuzione per il lavoro di evangelizzazione, egli contrappone la sua scelta di non usufruirne, non tanto per snobismo ma perché non può farne a meno; non pone il senso del suo agire al di fuori di quello che sta facendo ma lo coglie al suo interno.

Se il mercenario, per definizione, si sente creditore verso qualcuno per l’attività svolta, Paolo si riconosce debitore verso una chiamata ricevuta, non attende qualcos’altro, ma è proteso a viverla per non incorrere nella situazione che, alcuni anni fa, Anthony de Mello illustrava in un suo libro di aforismi: «spesso la vita è quella cosa che ci capita mentre stiamo pensando ad altro». Si può infatti rischiare di venire a patti con la propria alienazione, sia essa immaginaria, come l’ipocondriaco rappresentato anche in famose opere letterarie, oppure reale.

Venire a patti con la propria malattia o la propria alienazione consente di dedicarsi allo sport del lamento senza mettere nulla in questione della propria vita. È un’esperienza che invece non capita alla suocera di Pietro nel brano di oggi (Mc 1,29-39) la quale, appena guarita, si mette a servire gli ospiti. La donna ha chiuso con la sua malattia, non è venuta a patti con essa, anche se forse le avrebbe consentito di mendicare la compassione degli altri o accampare scuse, e le ha lasciato qualche ferita. Da questo punto di vista il Vangelo è un annuncio sempre salutare: aiuta a riconoscere i propri limiti ma anche a ripartire,  superando lo sterile lamento e la passione per gli stereotipi, a guardare la propria realtà con occhio limpido, perfino impietoso come Giobbe, ma anche a intervenire su di essa come Paolo, protesi a rispondere alla chiamata. A guardare al dramma della vita con gli occhi del futuro atteso.

*Cappellano del carcere di Prato