Il seme, la parola, l’ascolto
1. «Quando» parla Gesù?: «Quel giorno» (Mt 13,1), espressione generica a voler dire quella giornata in cui ha deciso di parlare, a lungo. «Dove» parla Gesù? In casa, in riva al mare (Mt 13,1-2), ma anche in montagna, lungo la strada, in piazza, nelle sinagoghe, sotto i portici del Tempio e in altri luoghi ancora, egli parla ove abita l’uomo. «Che cosa» dice Gesù?: «Egli parlò loro di molte cose» (Mt 13,3), nel nostro caso dei «misteri del regno dei cieli» (Mt 13,11), «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), segreti ora svelati ad ascoltatori che a loro volta li devono ritrasmettere ad altri. «Come» parla Gesù?: «Con parabole»( Mt 13,3), vocabolo che significa «similitudine-paragone».
Un linguaggio proprio a Gesù che ama partire da immagini e da episodi della vita quotidiana, dal vissuto, per illustrare il suo messaggio; un linguaggio volutamente semplice adatto alle folle (Mt 13,2) perché favorisce l’ascolto e la riflessione aprendo, giorno dopo giorno e nello stupore, a sempre nuove scoperte. Gesù per ben sei volte, in questo capitolo del Vangelo di Matteo, fa ricorso alla formula: «È simile il regno dei cieli a », «è paragonabile a », uno stile narrativo che inizia un discorso lasciandone agli uditori la prosecuzione per coglierne il profondo significato. Gesù non dà lezioni ma, mediante linguaggi allusivi, costringe a giudicare da sé stessi (Lc 12,54). Il che presuppone autentica volontà di capire:«Chi ha orecchi ascolti» (Mt 13,9.51), diversamente le stesse parabole si tramutano in enigma indecifrabile (Mt 13,10-11).
2. Dunque quel giorno, Gesù, in riva al mare seduto su una barca immagine, perché no, della Chiesa racconta alla folla i segreti del regno attraverso una parabola che tra tutte è la principale, quella del seminatore. Nei primi nove versetti (Mt 13,1-9) egli racconta qual è la sua attività e come la svolge invitando la folla a osservare il seminatore e i modi di seminagione. Per concludere: io sono il seminatore disceso a seminare il seme del regno dei cieli (cf Mt 4,17; Mc 1,14-15), senza esclusioni e discriminazioni pregiudiziali. Il seme in un modo o in un altro viene gettato ovunque, lungo la strada, su terreni sassosi, tra i rovi e su terreni buoni.
La parola del regno è per tutti. Nei versetti successivi (Mt 13,10-17) l’accento dall’attività del seminatore si sposta sulla scarsità del raccolto, e ci si domanda se ciò non possa essere causato proprio dal parlare in parabole di Gesù. Di fatto sia Gesù che la comunità primitiva dinanzi al dato inoppugnabile di una aspettativa delusa sono stati costretti a darsene una ragione, concludendo che la causa debba essere addebitata a una libera scelta di non accoglienza. E questo da parte di folle che pur fissando lo sguardo su Gesù di fatto non vedono per quello che realmente è, il Messia portatore dell’annuncio del regno; che pur udendone il messaggio di fatto né lo ascoltano né lo comprendono, negandosi alla conoscenza che esso arreca e alle esigenze che esso comporta. Non è questione di linguaggio, quasi Gesù non volesse farsi capire, ma le parole stesse in sé comprensibili diventano enigmatiche quando, come suggerisce la citazione di Isaia, devono fare i conti con un cuore, un udito e un vedere volutamente indocili, sordi e ciechi. Con una inevitabile conseguenza, il non custodire e il non approfondire conduce inesorabilmente alla perdita anche di quanto inizialmente era stato dato, mentre agli accoglienti sarà concessa una conoscenza di lui e dei misteri del regno sempre più profonda e estesa, una autentica beatitudine in cui si realizzano i desideri di molti profeti e giusti (Mt 13,12.16-17).
Siamo dinanzi a una prospettiva che in definitiva chiama in causa la responsabilità degli uditori, il no dei molti a fronte del sì dei pochi e il sì dei pochi a fronte del no dei molti è in ultima istanza ascrivibile a decisioni personali e collettive, in cui un ruolo non secondario giocano sedimentati pre-giudizi e pre-comprensioni. Chiaramente questa pagina, e ne accenno appena, risente del dato di una frattura in atto nel giudaismo tra l’ala «rabbinica» e l’ala «messianica», quelli di Gesù. Un dato che riletto nell’insieme della letteratura neotestamentaria non domanda giudizio ma amore incondizionato ieri, oggi e domani, nei confronti di chi non riconosce, qualunque ne siano i motivi, la messianicità di Gesù. E altresì rilettura del fenomeno all’interno dei disegni ineffabili di Dio (Rm 9-11) che nell’oggi storico hanno dato avvio all’amicizia ebraico-cristiana nel rispetto della via di ciascuno, chiamati insieme a testimoniare in nome e la via del Dio dei padri, per i cristiani il Padre di Gesù che in Gesù si è compiutamente narrato.
Gli ultimi versetti della parabola infine (Mt 13,18-23) sono rivolti al «Voi che ascoltate», cioè che avete accolto, in vista di quel capire sempre più esteso di cui la parabola aveva parlato in precedenza. Si tratta dei discepoli del tempo di Gesù e della Chiesa matteana iniziati alla conoscenza del destino della parola del regno annunciata da Gesù. In primo luogo un destino di «ascolto superficiale»: il messaggio si è fermato alla soglia dell’udito; in secondo luogo un destino di «ascolto temporaneo», il messaggio inciampa dinanzi a un credere messo a dura prova; in terzo luogo un destino di «ascolto penultimo», se ne capisce la bellezza ma più importanti sono la ricchezza e il successo mondano che finiscono per soffocarlo; infine un destino di «ascolto autentico» che produce in misurazioni diverse il suo frutto.
3. La provocazione per gli uditori del qui e ora storico si impone da sola. L’annuncio del regno dei cieli, di un Dio cioè che vuole introdurre nel suo mondo regale di vita nell’amore e di vita eterna, produce il suo frutto l’uomo strada-pietraia-rovo lascia il posto all’uomo terreno buono. Quello in cui questa parola trova spazio, ascoltata-accolta-compresa-cantata-vissuta, e nasce il figlio dell’agape, della resurrezione e della danza, risposta a un racconto che è dolce come il suono del flauto (Mt 11,17).