Il ritratto dell’ipocrita e la vera religiosità
1. Il capitolo 23 di Matteo è la trascrizione di una lunga conflittualità tra la sinagoga farisaica e la comunità cristiana, un confronto iniziato al tempo di Gesù, culminato attorno agli anni 80 d.C. e concluso in una separazione (cf. Gv 9,34). Matteo 23 riflette l’insieme di questa vicenda e la legge alla luce di una categoria che a ben vedere riguarda tutti molto da vicino, sinagoga – moschea – chiesa – religioni, la categoria dell’ipocrisia nella sua accezione letterale di simulazione. Il vocabolo ‘ipocrito’ significa infatti ‘attorÈ, colui che si mette la maschera nascondendo il suo vero volto e simulando in pubblico e al pubblico sentimenti e atteggiamenti esemplari al fine di un vantaggio personale in termini di simpatia, di stima e di prestigio religioso e sociale. Di questo Gesù parla alla folla, ai discepoli e a noi avvertendo che il fenomeno religioso sempre e ovunque è sottoposto al rischio di questa deriva, di questa degenerazione e di questa caricatura. Un’ipocrisia appunto sempre in cattedra e propria a ogni cattedra (Mt 23,2).
2. Un parlare, questo di Gesù, da cui emerge con chiarezza il ritratto dell’uomo religioso ipocrita. È l’uomo della sistematica scissione fra il «dire e il fare»: «dicono e non fanno» (Mt 23,3); e l’uomo della pura apparenza, il cuore è lontano da Dio e dalla via di Dio, ma l’esterno è ostentata esibizione di segni religiosi. Nel caso del Vangelo odierno i filatteri, le frange e lo stesso pregare nelle sinagoghe e nelle piazze per essere visti dagli uomini (Mt 6,5). Filatteri uguali a astucci dotati di piccole pergamene con trascritte alcune citazioni significative della legge, da portarsi sulla fronte e sul braccio (Es 13,1-15), e frange poste ai quattro capi della veste lunga a memoria dei precetti del Signore (Nm 15,37-41; Dt 22/12). Una ostentazione religiosa finalizzata all’affermazione del sé in termini di vanità e di notorietà, finalmente ammirati e salutati in piazza (Mt 23,5.7).
In termini di rilevanza religiosa, l’assidersi come maestri sulla cattedra di Mosè occupando «i primi posti nelle sinagoghe» (Mt 23,2.6.7) e nelle chiese. In termini di prestigio sociale, «i posti d’onore nei convitti» (Mt 23,6), l’accesso ai salotti che contano. In termini di ‘potere sulle coscienzÈ imponendo fardelli che l’ipocrita neppure tocca con un dito (Mt 23,4), e di «relazioni gerarchizzate» in base ai propri ruoli e alle proprie competenze (Mt 23,8-10). Siamo al cospetto di un ritratto dell’ipocrita seguito da un giudizio: «stolti e ciechi» (Mt 23,17) nel simulare dietro la maschera di una religiosità di facciata che scinde l’essere e l’esistere la realtà di una interiorità di fatto abitata dalla iniquità (Mt 23,25-28), l’ansia del sembrare, del primeggiare, del dominare e del gerarchizzare. Una maschera destinata prima o poi a cadere restituendo alla propria nuda verità.
3. Gesù con franchezza evidenzia l’ipocrisia che sonnecchia in ciascuno, singoli e comunità, e risveglia la coscienza dei suoi discepoli alla consapevolezza del da dove nasce e del come si esprime la vera religiosità. Essa è figlia di un riconoscimento, uno solo è il Maestro (rabbì), e uno solo è il Signore (marì), il Cristo e uno solo è il Padre (abì), il Dio di Gesù (Mt 23,8-10). Una unicità fonte di una radicale uguaglianza, tutti figli di Dio, tutti discepoli di Cristo, tutti fratelli fra di voi e tutti eredi del futuro di Dio. Una fraternità la cui declinazione è il servizio reciproco e nei confronti di ogni creatura ove l’innalzarsi sugli altri equivale ad abbassarsi ai loro piedi (Mt 23,11-12) diaconi del loro bisogno e della loro gioia. Questa è l’altezza dell’uomo religioso, e non solo, a misura di Cristo il Signore che si è fatto Servo e il Maestro che si è fatto parola nella mitezza e nell’umiltà togliendo pesi e rivestendo l’uomo del giogo dolce e leggero dell’amore e della compassione (Mt 11,28-30). Senza cercare gloria e consensi (Gv 5,41.44), unicamente dedito al bene dell’uomo a gioia del Padre. Ogni ruolo e compito nella Chiesa vanno letti a partire da qui, dallo sconvolgimento portato da Gesù il quale «ha talmente preso l’ultimo posto che nessuno può toglierglielo» (De Foucauld), ed è lì che chiede di raggiungerlo. Il posto per vedere bene se stessi e gli altri, senza maschere.