Il racconto della Trasfigurazione «illumina» la Quaresima

Letture del 17 febbraio, 2ª domenica di Quaresima: «Vocazione di Abramo» (Gn 12,1-4); «Donaci, Signore, la tua grazia: in te speriamo» (Salmo 32); «Dio ci chiama e ci illumina» (2 Tm 1,8-10); «Il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,1-9)

DI MARCO PRATESI

A pensarci bene, suona strano: come mai la liturgia quaresimale propone l’episodio della trasfigurazione? Come mai il grande tempo penitenziale dell’anno liturgico si illumina improvvisamente della luce del Cristo, «fotografato» in un tale momento di gioia?

La celebrazione liturgica della trasfigurazione prepara i fedeli alla celebrazione della passione. Liturgia e vita corrono parallele, perché non possiamo dare la vita (a Dio, al prossimo) senza aver sbirciato qualcosa di ciò che sta in fondo al nostro tragitto: la gloria. La gloria del Cristo, che si manifesta sul Tabor, è la nostra meta. Il dono, l’impegno, il sacrificio, la dedizione – diciamo come vogliamo, tra cristiani si può semplicemente dire: «la croce» – del discepolo non può mai essere cieca, realizzarsi in un buio pesto. È sempre accompagnata e sostenuta dalla percezione di una luce che sta oltre.

Senza questa illuminazione l’impegno non può essere cordiale e generoso: perderà la sua genuinità e diverrà piedistallo per le nostre pretese davanti a Dio, del nostro autocompiacimento e della voglia di apparire davanti agli altri. Abbiamo letto il Mercoledi delle Ceneri la polemica del Signore contro chi cerca «altre ricompense», gratificazioni estrinseche, nelle opere penitenziali (Matteo 6).

Senza questa illuminazione la croce di Cristo e del discepolo verrà percepita e vissuta come semplice strumento di umiliazione e di morte, nella quale potrebbe trovare una «salvezza» soltanto chi, per qualche patologia, fosse incapace di gustare la vita e di viverla.

Perciò quella luce deve potersi cogliere nella lotta quaresimale e nell’impegno della vita cristiana in generale. L’Oriente cristiano annette grande importanza alla «luce taborica», la luce della Trasfigurazione, in quanto rappresenta l’albeggiare del mondo nuovo, il suo mostrarsi già adesso tra le nebbie del mondo vecchio; e in quanto distingue l’«ascesi» cristiana da ogni altro cammino di miglioramento etico e religioso. Quella luce è la meta che si fa già presente in ogni passo. Sì, è vero: si deve morire per vivere; ma si deve anche essere radicati nella vita per accettare di morire. Altrimenti la nostra sarà una «inutile passione», un semplice morire. E dalla morte quale gloria viene a Dio? Il celeberrimo detto di Ireneo «la gloria di Dio è l’uomo vivente» va sempre citato integralmente: «e la vita dell’uomo è la visione di Dio». Solo chi vede Dio può morire come lui, e quindi vivere come lui. Questo è gloria di Dio.

Proponendoci la Trasfigurazione, la Chiesa ci chiede di immergerci nel buio della passione – come gli apostoli – solo dopo essere stati spettatori della luce del Tabor. Perché la nostra croce sia l’interrarsi del seme che muore e produce frutto generoso.

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