Il primato di Cristo

27 aprile, 6ª domenica di Pasqua: «Imponevano le mani e queli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,5-8.14-17); «Grandi sono le opere del Signore» (Salmo 65); «Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (1 Pt 3,15-18); «Pregherò il Padre e vi darà un altro Consolatore» (Gv 14,15-21)

DI MARCI PRATESI

La Prima Lettera di Pietro ci esorta a «santificare Cristo» nel nostro cuore. Espressione a prima vista strana, tanto che la nuova versione CEI crede bene – ahimè – di interpretarla («adorate»). Qui, come nel «sia santificato il tuo nome», «santificare» significa: riconoscere, onorare, accogliere, capire Cristo, dargli il posto che merita, ossia il primo. Dategli il posto che gli spetta, nel vostro cuore vivete il primato di Cristo. Questo riconoscimento come si traduce concretamente? La breve pericope ci ricorda due cose. Primo: essere pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi, con mitezza, rispetto, e una «buona coscienza».

Pietro dà molta importanza alla speranza come elemento fondamentale della vita cristiana. Il cristiano deve saper dire quello in cui crede, far conoscere le motivazioni del suo fidarsi di Cristo. Mai però con arroganza e presunzione; e con una «buona coscienza», cioè essendo effettivamente e sinceramente impegnati nel discepolato (il che non va confuso con l’essere perfetti!). Secondo: essere disposti a soffrire per il bene, ovvero a fare il bene soffrendo, sull’esempio di Cristo che patì, lui innocente, per noi colpevoli. Cosa ben spinosa… ma questa è la sapienza di Dio! Umanamente, ognuno porta il proprio peso, ciascuno ha quel che si merita e si tiene il suo carico. Ma Dio si è incarnato per prendere su di sé quel che non gli spetta, un fardello che non è suo ma nostro. Il cristiano è colui che si assimila talmente a Cristo da fare come lui, cioè prendere su di sé i pesi degli altri. Ahimè, questa sembra proprio una cattiva notizia! Non ce la faccio nemmeno a portare i miei, e dovrei assumermi i pesi altrui? Qui occorre occhio, ci vuol sapienza. Perché la cosa è impossibile alle forze umane, e se vogliamo farlo come nostra prodezza ci rompiamo la testa, scoppiamo! Solo Gesù ne ha la capacità, noi solo nella misura in cui siamo con lui. Da soli, il male ricevuto riesce a impadronirsi di noi, a prenderci in profondità, finalmente a ucciderci.

Tanto è vero che esso ci porta a diventare negativi, cattivi, pessimisti, etc.: allora dentro di noi la morte è riuscita a prevalere sulla vita, a conquistare il nostro centro, il cuore. Gesù, «messo a morte nella carne», sente tutto il peso della sofferenza e della morte, muore; ma viene «vivificato nello Spirito»: la morte non ha la capacità di afferrarlo in profondità. Egli, ferito e ucciso, non si lascia derubare della fiducia in Dio e della volontà di amare. Cristo vince la morte non saltandola, ma assumendola; non scendendo dalla croce, ma morendo così.

Diversamente, avrebbe certificato che vincere la morte equivale a scansare il male, il che è precisamente la sapienza del mondo: «se sei il Cristo, scendi dalla croce». Qui allora c’è davvero una buona notizia: la vittoria di Cristo sulla morte può diventare talmente nostra da consentirci, con lui, di dare la vita come lui.

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