Il perdono è una cosa seria
Il brano evangelico di oggi si apre con l’insegnamento sul perdono che Gesù rivolge a Pietro, corredato dalla parabola dei due servi debitori a mo’ d’esempio (Mt 18, 21-35). Se la richiesta del perdonare settanta volte sette può apparirci eccessiva, totalmente sbilanciata e quasi irreale nella sua pretesa, non è così se confrontata con il racconto successivo, che, viceversa, è lampante e lineare: hai una bella faccia tosta tu che non rimetti il debito all’altro dopo che sei stato sgravato dal tuo, migliaia di volte superiore!
E allora perché non funziona, non rende più accettabile questo insegnamento che rimane assai ostico, perlomeno nella maggioranza dei casi? Si tratta di un caso serio, un punto centrale che viene comunque percepito come uno dei cardini della fede cristiana. Altrimenti perché l’intervistatore di turno nei pruriginosi programmi televisivi presenti un po’ su tutte le reti domanderebbe alla vittima di odiosi reati o ai familiari, a volte con l’odore del sangue ancora aleggiante nell’aria: «Ma lei perdona?». E chi dice si viene dipinto come una specie di santino, di eroe di accatto forse non con tutte le rotelle a posto, e chi dice di no produce la reazione scandalizzata, ma anche rassicurante: lo vedi che il perdono è irrealizzabile checché ne dica la Chiesa? È inutile perderci tempo.
Il perdono, ci dice invece il vangelo, non è una macchietta, nasce da uno sguardo sulla realtà propria e quella altrui, uno sguardo di verità, non dogmatica, ma quella di tipo semplice, quotidiano, con la quale diamo il nome alle cose. Non ti rendi conto dell’incredibile dono che ti è stato fatto, della gratuità di Dio della quale sei stato fatto oggetto? Mah, veramente no, non mi sembra di aver fatto cose così gravi da aver tutto questo bisogno di perdono!
Questo è un primo problema, è lo stesso per cui, nel cammino di Gesù, i malati si accorgono della guarigione ottenuta e i sani no (cf. Mc 2,17), ed il motivo per cui le prostitute e i pubblicani precedono i religiosi nel regno dei cieli (cf. Mt 21,31). E allora, uno potrebbe ribattere, che devo fare, mettermi a far peccati o far finta di essere in questa situazione, per pormi in una relazione positiva con Dio? Mi devo colpevolizzare a ogni costo (accusa rivolta molte volte alla Chiesa e ai suoi ministri)? Non può essere questo. E’ vero che alle volte il giudizio sulle proprie scelte viene distorto al punto di non percepirne la realtà oggettiva: «tanto lo fanno tutti (rubare, non pagare le tasse…)» e comunque il proprio è un caso a parte, tanto che anche il pluriomicida può sentirsi migliore di altri, a suo giudizio, peggiori di lui. Ma in ogni caso anche se davvero fosse così, che cioè io non ho nulla da rimproverarmi, non dovrei sentirmi comunque in debito per i doni ricevuti, perché grazie a Lui e ai fratelli che mi ha fatto incontrare non sono «caduto nella fossa» (cf. Sal 39,3)?
La Vergine Maria, dice la dottrina più tradizionale, è immacolata in vista e per i meriti della redenzione operata da Cristo. In questo senso, come tutti e ben più di tutti, è oggetto della misericordia di Dio, ne è il frutto più bello. Ed ella, che si riconosce come la «misera serva del Signore» (Lc 1,48), proprio perché non ha nulla da farsi perdonare comprende che l’intera sua vita è sotto l’amore preveniente di Dio. Con lei anche noi possiamo, in ogni caso, sentirci racchiusi dal medesimo abbraccio, solidali con chiunque è caduto perché Dio «ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia» (Tt 3,5).
*Cappellano del carcere di Prato