Il percorso del cieco dalle tenebre alla luce
Nel contesto dei vangeli di taglio «battesimale» di queste domeniche di Quaresima, la liturgia di oggi ci presenta uno dei brani capolavoro di Giovanni, la guarigione del cieco nato (Gv 9, 1-41). La luce di Cristo, che ispirerà anche il nome primitivo del sacramento del Battesimo, ovvero «illuminazione», si irradia con effetti contrastanti. Non vi è solo la precipitosa fuga delle tenebre di fronte ad essa, ma paradossalmente diventano più cupe anche le ombre, quando qualcosa si frappone come schermo davanti a questa sorgente (cf. Ef 5, 8-14; 2a lettura).
Il capolavoro del brano evangelico, come altri in Giovanni, sta proprio nel presentare questa dialettica, due percorsi, uno in salita l’altro in discesa, che si intersecano in questa vicenda. Il percorso del cieco è dalle tenebre alla luce, quello degli oppositori di Cristo esattamente al contrario. Il punto di partenza è la problematica che turba l’impianto religioso che non sa collocare al suo interno la presenza destabilizzante del cieco nato, contraddizione palese della bontà e del senso della creazione. Una strategia ricorrente è la delegittimazione: il cieco non ci dovrebbe essere ma se c’è ci sarà una motivazione. Non può essere tollerato un tale atto di accusa vivente all’azione di Dio, e allora andrà ricercata nella trasgressione di qualcuno. In questo modo gli animi sono pacificati, si riconduce una realtà scandalosa nella plausibilità, tattica che emerge a volte anche oggi quando alla sofferenza altrui si risponde semplicemente cercando un colpevole, o peggio ancora, rivestendo il tutto con un manto di spiritualismo a buon mercato. Tutto questo impianto viene messo in crisi dal fatto inaspettato della guarigione. Perché questa apertura di vita, di un nuovo orizzonte, non provoca il canto di lode e ringraziamento?
Non può essere che il cieco ci veda, ci deve essere un trucco, questo messia puzza di eresia, questa felicità ottenuta fuori dai canali deputati non è accettabile, denuncia che l’impianto religioso non ha dato salvezza, ma solo condanna o invito alla rassegnazione. Ed ecco che inizia la distorsione della realtà: è il cieco… non è il cieco… il guaritore è uno «non abilitato», forse un impostore… e non importa quale sia la realtà. Si vorrebbe che il cieco aderisse all’interpretazione ufficiale, mentre per lui è molto più facile constatare: «ero cieco e ora ci vedo»(Gv 9,25). Ma l’interpretazione ha ormai preso il posto della realtà e di fronte a questo tipo di cecità non c’è miracolo possibile.
È allora l’interpretazione che fa la differenza, le tecnologie più raffinate aiutano fino a un certo punto. La facilità con cui oggi possiamo procurarci dati e informazioni di ogni tipo fino ad esserne sommersi va di pari passo con la difficoltà di capirci davvero qualcosa, la fatica (o il disprezzo) di una qualsivoglia attività sapienziale, la concentrazione sulle realtà più ridondanti quali parole, slogan, moti primari. La difficoltà di leggere i segni dei tempi (cf. Mt 16,3) e, per contro, la ricerca del consenso, di risposte facili e definitive, la concentrazione sull’apparenza, sono cifre della nostra cecità. Eppure il Signore non guarda l’apparenza ma il cuore (cf. 1Sam 16, 1-13; 1a lettura), perciò concentrarci sull’apparenza, o sulla sua codificazione, ci allontana da Dio. Potremmo addurre come scusante che in ogni caso non siamo capaci di conoscere il cuore dell’uomo (cf. Ger 17,9). Ma lo Spirito sì. «Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» ( 1 Cor 2,16), da chiedere continuamente come luce alle nostre menti.
*Cappellano del carcere di Prato