Il dramma del profeta: parlare dell’indicibile
Il Vangelo di oggi ci presenta, nella narrazione di Marco, il primo intervento di Gesù volto a proclamare e a manifestare, dopo la chiamata dei primi discepoli, la novità del regno di Dio con la guarigione dell’indemoniato (Mc 1,21-28). Le forze caotiche del male regrediscono di fronte a una parola pronunziata con autorità. È la vittoria del «senso», della ricchezza del significato, sopra ogni apparenza, la parvenza illusoria di una realtà chiusa a Dio, o, meglio, che vorrebbe chiudere Dio nel recinto del sacro evitando ogni commistione con il mondo e la storia. Lo spirito maligno non si sogna di contestare Dio, e conosce bene la vera identità di Cristo. Solo non può accettare questo suo travalicare nel mondo, quello che il maligno forse reputa una scorrettezza: non hanno forse affermato anche grandi filosofi che Dio è al di fuori del contingente, nell’iperuranio, o nelle alte sfere celesti, mentre la terra è il luogo della corruzione, della materia, frutto di qualche demiurgo stupido o malvagio? E allora che ci fa Dio qui? Il povero spirito se la deve essere proprio presa, come quando i bambini si piccano: «e allora con te non ci gioco più» e infatti se ne va vociando e sbattendo la porta. Non intendo con questo banalizzare il dramma che sta dietro questo primo scontro con il Signore, ma vorrei sottolineare che c’è anche un livello più profondo: se la nostra immaginazione è colpita dallo strepito o dai fenomeni incomprensibili operati dal maligno, sfruttati anche da certi film horror, occorre non fermarsi solo a questo.
Nella prima lettura (Dt 18,15-20) si parla della necessità di un profeta, invocato dal popolo e promesso da Mosè, come intermediario con Dio. La voglia di un incontro viso a viso con il Signore cede il passo alla paura per la sua potenza schiacciante: ecco che il profeta si situa come mediatore per rendere Dio accessibile al suo popolo, anzi è Dio stesso che inizia questo primo abbassamento che culminerà con la venuta di Cristo, che «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7). Questo perché il popolo di Dio possa camminare per tappe successive in un itinerario di incontro col suo Signore. Però il profeta non può, per definizione, dire tutto, parlare con parole umane significa non riuscire a esprimere pienamente il mistero, e questa sarà sempre la sua croce. I profeti di ogni tempo, non escluso Gesù Cristo, hanno trovato sempre qualcuno che ha loro rimproverato questa parzialità, perseguitati non solo dagli oppositori, ma anche da coloro che, in teoria, avrebbero dovuto accogliere il loro messaggio, sia perché hanno detto troppo, sia perché hanno detto troppo poco.
Questo è il dramma del profeta, dove davvero si gioca il cuore dello scontro: il pensiero del maligno è che Dio sia indicibile, incomunicabile, conchiuso in se stesso, un pensiero che non solo origina manifestazioni plateali come nel brano di oggi, ma che è condiviso anche da altri soggetti meno appariscenti: tutti coloro che hanno chiamato indemoniato il Battista, e Gesù Cristo mangione e beone, che non si lasciano coinvolgere né nella danza né nel canto di un lamento (cfr. Mt 11,17-19). Coloro che innalzano lapidi ai profeti passati riconoscendo sempre dopo che erano un passo avanti, e facendo lo stesso con i profeti di oggi (cfr. Mt 23,29). Chi, pieno di sé, ripete al profeta dilaniato da una parola più grande di lui, come già gli ateniesi a Paolo: «ti ascolteremo su questo un’altra volta» (At 17,32).
*Cappellano del carcere di Prato