Il debito dell’amore reciproco
Una caratteristica del nostro tempo è quella del ricorso sempre più ampio a una qualche forma di indebitamento, attraverso l’utilizzo di finanziamenti, rateizzazioni di vario tipo, carte elettroniche e via dicendo, non solo per le grandi spese come l’acquisto di una casa o di un auto, ma anche in modo più spensierato per generi voluttuari, viaggi, regali, eccetera.
Non sembra esserci, come forse in passato, la paura di fare un passo più lungo della gamba, l’invito a «prendere adesso e pagare poi» è assai seducente, con il conforto delle affermazioni dell’esperto di turno per il quale in questo modo si rimette in moto l’economia e riparte la crescita. Tutta questa leggerezza non pare esserci, per contro, nelle relazioni interpersonali, dove spesso appare l’ansia di proteggersi da eventuali rivendicazioni altrui con tutta una serie di strumenti atti allo scopo: liberatorie di vario tipo, in tutti i campi della vita sociale, fino ai contratti prematrimoniali in vista di possibili futuri contenziosi, regolano spesso non solo gli aspetti strettamente economici ma un po’ tutti gli ambiti, il «null’altro a pretendere» come moderno amuleto contro rovesci inaspettati.
La liturgia di oggi, al contrario, ci invita a sentirci (anzi a ben vedere ci dice che siamo) comunque in debito con l’altro. È il debito dell’amore reciproco di cui parla Paolo (Rm 13, 8-10; 2a lettura) e che non ci consente di dire al prossimo «e tu che vuoi da me?» e questo non solo, come sembra in apparenza, nei confronti dei fratelli di fede e di cammino, ma anche verso il fratello che si sta in qualche modo allontanando (Mt 18, 15-20) e anche verso colui che questo legame lo ha già rotto ed è entrato nella categoria del nemico, o addirittura del malvagio (Ez 33, 1-9; 1a lettura). Qui la Bibbia in generale, e il Vangelo in particolare, mostra tutta la novità del suo messaggio.
Per secoli, e ancora non è finita, si è cercato di utilizzare la categoria del nemico per sdoganare sentimenti di rivalsa, di vendetta, di superiorità rivestendoli di alte motivazioni. È vero che potremmo limitarci, secondo la parola del profeta, ad ammonire chi sbaglia: in fondo ogni «ultimatum» (dalla crisi diplomatica alla marachella del nipotino) non ha questa funzione? Non basta dire chiaramente all’altro che sta sbagliando, minacciando sanzioni, sempre riferite ad un valore guida (ma che spesso è semplicemente la propria visuale), dopodiché si può tranquillamente dare la stura al conflitto con tutte le sue conseguenze? Non è proprio così. Vi è un elemento centrale da considerare comunque, ovvero la dignità, il valore, la grandezza dell’altro (e forse qui è più facile nei confronti del nipotino che non di altri soggetti, ma non è detto). A differenza dei processi nei quali il nemico viene accuratamente deumanizzato, il riferimento alla sua dignità o al suo valore stigmatizzato come una «fraternizzazione» inopportuna, per il Vangelo (e perciò per il cristiano) l’umanità altrui chiede di essere riconosciuta a priori, come fondamento per tutti i passi successivi.
Non è facile in questi tempi incarogniti da attentati, aggressioni, azioni truffaldine contro i più deboli, parlare dell’umanità di chi sbaglia, sembra un indebito cedimento che non possiamo permetterci, ma anche su questo punto sta (o cade), la nostra adesione al Vangelo come riferimento per il cammino, quell’identità sbandierata a ogni piè sospinto come valore irrinunciabile. E allora se Vangelo deve essere, che Vangelo sia.
*Cappellano del carcere di Prato