Il cristiano non può cedere alla paura
Riprende da questa domenica il calendario festivo del tempo ordinario, proseguendo con la lettura del Vangelo di Matteo che ci accompagna in quest’anno liturgico (Mt 10, 26-33). Le letture di questa liturgia ci parlano di un tema nei confronti del quale siamo oggi particolarmente sensibili, ovvero quello della crisi. Crisi principalmente economica, quella che forse preoccupa maggiormente, ma anche crisi della politica, dei valori, della vita comune. Crisi che viene spesso associata in modo automatico all’idea di decadenza, di blocco e impossibilità di andare avanti.
Eppure il vangelo ci parla di una crisi che è quasi la dimensione naturale della vita cristiana. Forse l’evangelista pensava alle difficoltà incontrate dalla comunità all’inizio del suo cammino, ma questa parola ha valore anche per noi. Per molte volte risuona l’invito di Cristo: «non temete… non temete…» quasi a ribadire che la vita cristiana, la testimonianza evangelica non necessita di alcuna «zona franca» o condizioni particolarmente favorevoli. Il brano di oggi è addirittura incastonato in due affermazioni simili che fanno, prima e dopo, da cornice a quest’invito: «Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio…»(Mt 10,21) e «sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre…» (Mt 10,35). La difficoltà incontrata nei rapporti con i propri familiari riprende e amplifica l’esperienza di Geremia, ostacolato e perseguitato dagli amici, come nota esplicitamente il testo (Ger 20,10-13; 1a lettura).
Verrebbe da citare il proverbio: «dagli amici mi guardi Iddio…» , eppure si tratta di una situazione nella quale il profeta viene messo da Dio stesso e che provoca la sua amara reazione: «maledetto il giorno in cui nacqui…» (Ger 20, 14) ma anche una delle espressioni di più belle e intense di tutta la Bibbia «mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre…»(Ger 20,7).
Tutto questo credo che abbia qualcosa da dire sul modo di intendere la presenza della comunità cristiana nel mondo e il compito della testimonianza a lei affidato dal Signore. Possiamo augurarci di trovare le condizioni più favorevoli per l’adempimento di questo compito ma non stupirci di difficoltà e opposizioni incontrate, per non cadere in una visione borghese e perbenista del cristianesimo, o, peggio, nel lamento elevato a sistema. È molto facile, infatti, fare piazza pulita dei propri valori fondanti in nome della crisi che si teme o dell’emergenza che occorre fronteggiare: anche personaggi autorevoli hanno recentemente parlato, ed esempio, di sospensione dei diritti umani per affrontare l’emergenza del terrorismo, questo in campo non strettamente religioso, ma pure nella chiesa non vengono lesinate critiche a papa Francesco o altri testimoni per una pretesa debolezza o eccessiva condiscendenza verso chi minaccia i nostri valori o il nostro stile di vita.
Non si tratta di debolezza, si tratta di coraggio, il fondarsi sul «non temete» della parola evangelica. Ricordiamo ancora il «non abbiate paura» di Giovanni Paolo II? E la testimonianza disarmata delle Chiese dell’est che hanno pagato un tributo di sangue e persecuzione, guadagnandosi la stima e l’ammirazione del mondo, per una libertà vera e integrale di ogni uomo? E i muri che si innalzano oggi proprio in quei luoghi e in quelle società che erano diventate un simbolo in questa lotta, come si spiegano? Era tutto uno sbaglio? È stata trovata una via migliore? Oppure (e questo vale per tutti) abbiamo ceduto al timore, abbiamo appaltato a qualcun altro la gestione delle nostre paure?
*Cappellano del carcere di Prato