Il credente è un pellegrino
Prosegue in questa domenica la lettura del capitolo 6 di Giovanni, con i versetti 51-58 che ci presentano in modo diretto il Cristo come pane di vita, la sua carne e il suo sangue come elementi vitali e insostituibili, che provocano incomprensione e reazioni di rigetto da parte dei presenti.
Questa presentazione così esplicita che rasenta l’eccesso nella sua materialità si contrappone assai nettamente all’invito che troviamo nella prima lettura: il banchetto spirituale che dona sapienza e intelligenza agli stolti e agli inesperti (Pr 9,1-6) e che ricorda il «latte spirituale» di cui parla Pietro, che dovrebbe servire allo svezzamento e alla maturazione dei credenti agli inizi del loro cammino per fortificarne la fede (cf. 1Pt 2,2). Però non può trattarsi di un percorso solamente intellettuale, un simposio dal sapore filosofico per aprire le menti dei discepoli a concetti alti e raffinati. La sapienza nelle scelte, nella comprensione della realtà e del progetto che Dio sta realizzando in essa porta al confronto con le contraddizioni, le involuzioni e gli ostacoli che la caratterizzano: sono «i tempi cattivi» di cui parla Paolo nella seconda lettura (Ef 5,15-20).
Il credente non è un accademico che discetta sui più alti sistemi, è un pellegrino che cammina in questo mondo eppure ha tempo e voglia di salmeggiare, inneggiare e rendere grazie a Dio; non perché non veda la realtà del tempo presente, ma perché vede oltre questa realtà, come già ricordato la scorsa domenica. In questo senso l’eucarestia è davvero una realtà «transitoria», nel senso letterale del termine, legata a doppio filo con il percorso della comunità dei credenti nella storia, il pane del cammino di cui spesso cantiamo nelle celebrazioni e quindi in contatto con quella realtà immatura e imperfetta che tutti noi sperimentiamo. L’eucarestia perciò non può essere vista solo come il sigillo della nostra adeguatezza, ma il sostegno alla nostra inadeguatezza.
Lo scandalo provocato dal pensiero di un Cristo accessibile alla manducazione dei discepoli, anzi della sua stessa necessità (anche se ridimensionato dalla successiva riflessione teologica che ne ha precisato il significato spirituale più autentico), può rinnovarsi considerando la situazione dell’altro partner, ovvero ciascuno di noi. Non tanto, quindi, scandalo che Cristo offra se stesso in cibo ma che si offra per me, indegno per definizione. Se rimane pienamente giustificato nella predicazione l’invito a non banalizzare la celebrazione dell’eucarestia con un atteggiamento superficiale e inconsapevole, non bisogna però dimenticare questa dimensione pellegrinante, dono fatto a noi stolti e insipienti che solo scaldandoci a questo fuoco e assimilando il buon sapore di Cristo possiamo sperare in un felice esito del nostro cammino.
*Cappellano del carcere di Prato