Il capovolgimento della sorte
La Liturgia della Parola di questa domenica ci presenta ancora una volta il tema della ricchezza e della sua amministrazione. Domenica scorsa, con la parabola dell’amministratore disonesto, Gesù ci ha detto che c’è un modo semplice di usarla a vantaggio della vita eterna: farne dono ai poveri. Certo, ci ha detto pure un’altra cosa: la ricchezza è la vera rivale di Dio nella conquista del nostro cuore, pertanto non possiamo servire l’una o l’Altro. O metteremo il cuore in Dio o lo metteremo nella ricchezza, una terza possibilità non è data.
Oggi, con la parabola del ricco epulone e il povero Lazzaro, l’evangelista Luca riporta il discorso sull’uso della ricchezza vedendone le conseguenze nella vita dopo la morte. Qui in terra un uomo ricco «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti», «un povero di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe». Dopo la morte, Lazzaro è consolato perché gli angeli l’hanno «portato accanto ad Abramo», mentre il ricco è «negli inferi fra i tormenti».
È il capovolgimento della sorte. A questo punto inizia un interessantissimo dialogo tra il ricco e Abramo. Il ricco vorrebbe essere alleviato dalle sue sofferenze anche con una goccia di acqua portata a lui da Lazzaro. Abramo dice che è impossibile, perché tra i beati e coloro che si trovano negli inferi, c’è un «grande abisso che non può essere superato». Il ricco, allora, preso da un senso di premura verso i «cinque fratelli» , chiede ad Abramo di mandare Lazzaro a casa di suo padre perché li «ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». Abramo, al ricco che poneva fiducia in uno scossone che può venire dall’apparizione di una persona morta, risponde con una frase lapidaria: «Se non ascoltano Mosé e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti».
Due, le riflessioni che propongo: una riguarda il povero Lazzaro (che porta lo stesso nome dell’amico di Gesù, il fratello di Marta e Maria di Betania, richiamato alla vita da Gesù stesso), l’altra la secca risposta di Abramo sulla fede che, dichiara, non nasce da «prove». Il povero è «amico» di Gesù e di Dio. Essere vicini al povero, significa essere vicini a Dio. Dare da mangiare al povero è dare da mangiare a Dio. Può essere che alcuni di noi siano meravigliati delle parole che Papa Francesco usa nell’indicare i poveri come «carne di Dio, di Cristo». San Giovanni Crisostomo molto prima (anni 349-407)) aveva scritto: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Dopo averlo onorato in chiesa, non disprezzarlo quando è coperto di stracci fuori della porta della Chiesa. Colui che ha detto: “questo è il mio corpo”, ha detto anche “questa è la mia fame”. Che importa che la mensa del Signore scintilli di calici d’oro mentre lui muore di fame? Che senso ha offrirgli porpora e oro e rifiutargli un bicchiere di acqua? Rendi bella la casa del Signore, ma non disprezzare il mendicante, perché il tempio di carne di questo fratello è più prezioso del tempio di pietre!».
L’altra riflessione, scrivevo sopra, è sulle parole di Abramo: «Se non ascoltano Mosé e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Con queste parole il vangelo afferma con chiarezza che non ci sono «prove» che ci possono far credere o, tanto meno, costringere a credere, neanche la risurrezione di un morto. Questo è tanto vero che anche agli apostoli è accaduta la stessa cosa dopo la morte di Gesù.