I primi, gli ultimi e l’«ingiustizia» di Dio
La liturgia di oggi ci presenta uno di quei brani che impattano sempre sui quadri mentali che, in modo più o meno marcato, ci portiamo dentro.
Si tratta del brano dei lavoratori della vigna (Mt 20, 1-16) che fino all’ultima ora vengono invitati a mettersi all’opera e pagati tutti a salario intero, cosa che provoca il risentimento dei primi. Questo mette in luce molto chiaramente quella che potremmo definire come «ingiustizia di Dio», affermazione apparentemente blasfema ma che comunque emerge come problema anche in altre pagine della Bibbia e che provoca un contenzioso fra Dio e l’uomo: «Non è retto il modo di agire del Signore» (Ez 18,25).
È vero che il sospetto sull’ingiustizia di Dio emerge principalmente in vicende drammatiche, il dolore degli innocenti, il trionfo degli empi: l’intero libro di Giobbe è consacrato a questo tema, come pure molti salmi, dove si cerca comunque di confrontarsi con questi veri e propri «crepacci» nel progetto di Dio, che possono essere imputati a forze maligne («la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo»- Sap 2,24), al peccato dell’uomo (cf. Sof 1,17), o alla sua incapacità di comprendere fino in fondo un mistero che lo travalica (cf. Gb 42,3). E’ piuttosto l’ingiustizia di Dio nel bene, espressione dalla sovrabbondanza della sua misericordia, che è totalmente inaccettabile. Il figlio maggiore non capisce (e forse non lo capirà mai) perché il padre accoglie di nuovo il figlio prodigo (cf. Lc 15,28), così come Giuda non capisce lo spreco dell’olio nell’unzione di Betania (cf. Gv 12,5). Anche Isaia nella prima lettura di oggi (Is 55,6-9), parla di un pensiero di Dio che sovrasta i pensieri dell’uomo, principalmente nell’ambito dell’esercizio della sua misericordia, sottolineandone la distanza. Riguardo al Vangelo potremmo domandarci cosa cambierebbe per i primi operai se il padrone avesse pagato agli ultimi solo il salario effettivamente lavorato.
Avrebbero lavorato lo stesso tutto il giorno, sopportato il caldo e ottenuto quello che spettava loro, mentre gli ultimi sarebbero tornati a casa forse con nemmeno i soldi per pagarsi la cena. Ma tutto sarebbe giusto. Il principio sarebbe salvo. Ma quale principio? Uno dormirebbe più tranquillo sapendo che qualcuno va a letto con la fame, con la benedizione di una contabilità rigorosa? Se davvero è così di quale umanità stiamo parlando? Certo c’è chi non è in regola, non ha le carte a posto, non ha i permessi giusti… e allora che crepi tranquillamente, la regola è salva. C’è, per l’appunto, un profluvio di regole nella nostra società, spesso fini a se stesse, oggetto degli sforzi educativi in ambito scolastico e sociale (»educare al rispetto delle regole») con le quali si cerca forse di rimediare alla perdita di controllo, alla frammentazione sociale che sembra una cifra del nostro tempo.
Eppure le regole da sole non bastano, quando manca uno scopo, un progetto, una finalità. Quella di Dio è la vita dell’uomo, di ogni uomo. Il celebre detto di Ireneo: «la gloria di Dio è l’uomo vivente», riassume questa visuale. Dio non è glorificato dal buon funzionamento della macchina del cosmo, ma dalla vita di quella persona concreta, io, tu, l’altro; questo ribaltamento Gesù lo esprime chiaramente nella disputa sul sabato (cf. Mc 2,27), che è fatto per l’uomo e non viceversa. È una sovversione che possiede tuttora una forza dirompente, che fa impallidire i patetici tentativi dell’uomo di dare una patente di plausibilità all’egoismo elevato a sistema.
*Cappellano del carcere di Prato