Gesù, un profeta non sempre ben accolto
Il brano evangelico di questa domenica (Lc 4,21-30), continuazione di quello di domenica scorsa, ci presenta una situazione abbastanza paradossale, che può suscitare qualche perplessità. Vi è la prima scena, quella già incontrata in precedenza, la lettura di Isaia con l’annuncio del suo compimento, che fa da cerniera con quella di oggi, lo stupore dei presenti che testimoniano la parola di grazia uscita dalla bocca di Cristo, e poi la sua improvvisa provocazione che vira il discorso sulla richiesta di segni e il suo rifiuto a compierli, quando, rimanendo al testo, sembra che nessuno abbia fatto una richiesta in tal senso.
Forse potremmo leggere in quella domanda «non è il figlio di Giuseppe?» una venatura di perplessità, ma di certo fino a qual momento il clima sembrava del tutto positivo. Da una parte possiamo restare ammirati dal fatto che Gesù non voglia adulare in nessun modo i suoi ascoltatori, e che non tenga in nessun conto le aspettative nascoste dei presenti calibrando il suo messaggio sulle loro attese; dall’altra potremmo giudicare il Cristo, con la sensibilità di oggi per i sondaggi, l’audience, la costruzione del consenso, come un pasticcione che è riuscito a inimicarsi utili sostenitori con un comportamento maldestro.
Oppure, e forse potrebbe essere un argomento più fondato, vi è stata la necessità di questa provocazione: la parola profetica ha sempre anche una funzione destabilizzante, almeno all’inizio, deve dire qualcosa di altro, di importante, che non è risaputo, svelare le intenzioni di Dio, il suo intervento nella storia e che, quindi, non sarà ininfluente, richiederà nuovi assetti, spostamenti, cambiamenti. Se facciamo un breve confronto con testi simili a questo, dove Gesù rifiuta di compiere segni esigiti da qualcuno, troviamo alcuni interessanti spunti di riflessione: egli non darà alcun segno alla generazione presente tranne il segno di Giona (cf. Lc 11,29) perché alla sua predicazione quelli di Ninive si convertirono (di nuovo una contrapposizione fra vicini increduli e lontani che hanno accolto il messaggio); in Mt 11,21-24 minaccia le città del lago, Cafarnao, Betsaida, della stessa sorte di Sodoma pur avendo, loro sì, visto dei segni (che evidentemente non sono bastati), tutto questo dopo una disputa con il Battista se Gesù fosse davvero il Messia con una ripresa del testo di Isaia che Cristo porta a compimento (cf. Mt 11,3-10); evidentemente questo testo e i segni, fatti o non fatti, compresi o rifiutati, procedono di pari passo. Uno schema simile è al capitolo 12 di Matteo: il rifiuto radicale di Cristo che diviene bestemmia dello Spirito (Mt 12,24-32), è preceduto da una citazione di Isaia simile a quella della sinagoga di Nazaret, il messia mite che non infrange la canna incrinata (cf. Mt 12,18-20). Questa carrellata solo per dare il senso del rapporto complesso fra l’annuncio di pace e liberazione del Messia, con la sua accettazione: non sempre è lineare, non sempre la parola procede senza scossoni, ogni messaggio richiede di mettersi in questione rifiutando spiegazioni troppo comode.
Anche nella seconda lettura, il celebre «inno alla carità» (1Cor 12,31-13,13) vi è lo spostamento da un certa retorica: non basta neppure dare tutte le sostanze ai poveri, per vivere la carità? Parrebbe di sì, non perché Dio goda nel proporci sfide impossibili ma forse perché rimaniamo aperti a non mortificare i suoi doni, la sua chiamata, a non mantenere, sotto sotto, quel certo vanto che ci conferma nelle nostre certezze.
*Cappellano del carcere di Prato