Gesù perdona l’adultera ma dice «Non peccare più»
Dicono i biblisti che questo brano, omesso da quasi tutte le copie del Nuovo Testamento (manoscritti, versioni, Padri), e dallo stile di colore sinottico, non può essere dello stesso Giovanni, né si può sapere come abbia fatto ad entrare nel capitolo ottavo del quarto Vangelo. Forse perché, dopo qualche versetto, si trova la frase: «Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15). Molte ragioni (il tema, lo stile, il linguaggio) invitano ad attribuire questa pagina a san Luca, nel cui Vangelo troverebbe un contesto eccellente (Lc 21,38: «E tutto il popolo di buon mattino andava a lui nel tempio per ascoltarlo»).
Comunque, al di là di ogni discussione e ricerca, la sua canonicità, il suo carattere ispirato e il suo valore storico sono in ogni caso fuori discussione. Nei primi secoli della Chiesa, con l’aumento del numero dei cristiani, era decaduta la qualità della fede e si era introdotto un certo lassismo, che giustificava ogni comportamento. Come reazione, nei confronti di chi peccava gravemente (apostasia, adulterio, omicidio) si era diffusa la prassi di concedere il perdono una sola volta. Ai recidivi non rimaneva che attendere il severo giudizio di Dio. Questa pagina che contrastava con la severità di questa prassi e i rigoristi preferivano non negarla, ma ometterla.
La frase che scandalizzava i rigoristi e che forse ancora oggi qualcuno non digerisce, è «io non ti condanno». Qualcuno può interpretare così: la donna doveva essere lapidata, ma, poiché si era pentita, Gesù l’ha difesa e poi perdonata. Ma nel testo non c’è nulla che faccia supporre che la donna fosse pentita. Questa donna, «sorpresa in flagrante adulterio» non è da confondere con la peccatrice di cui parla Luca (7,36-50), la quale in casa del fariseo Simone, dopo aver bagnato i piedi di Gesù con le sue lacrime, li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Questa adultera, colta sul fatto, minacciata, strattonata, forse picchiata, scaraventata dinanzi a Gesù, è una povera creatura sconvolta, spaventata, piena di vergogna, dinanzi ad una folla che punta il dito ed è pronta a scagliare le pietre. Gesù avrebbe potuto togliersi d’impiccio invitando gli accusatori a rivolgersi ai giudici legittimi, che, essendo Gesù nel tempio, erano a pochi passi. Ma questo sarebbe stato un abbandonare la donna alle mani degli accusatori. Per questo Gesù dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
A quel punto i presenti cominciarono a sentirsi a disagio e, cercando di nascondere l’imbarazzo, si allontanarono. Il fatto che i primi ad allontanarsi sono i più vecchi, invita quanti di noi siamo più anziani a fare un esame di coscienza: siamo spesso proprio noi a giudicare con più rigore e ad usare le pietre del giudizio, della mormorazione e della sfiducia (Rom 2, 1-2).
Gesù dice: «Non ti condanno». Ma, attenzione! Con questa parola approva o minimizza il male, che in questo caso è l’adulterio? Nessuno odia il peccato quanto Gesù, perché nessuno ama l’uomo quanto lui e il peccato è il male più grande dell’uomo. Gesù condanna il peccato, ma ama il peccatore. Così apre al peccatore la strada vera: condannare anche lui il peccato e, sentendosi accolto, iniziare una vita diversa: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Vale la pena ricordare le parole del Papa Giovanni XXIII all’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora, tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando le condanne». Condannare il peccato, ma amare il peccatore. È quanto in modo supremo ha fatto sempre Gesù che, mentre eravamo ancora peccatori, è morto per i nostri peccati.
*Cardinale