Gesù interrogato sulle tasse
1. La questione delle tasse è un antichissimo capitolo del rapporto Stato-cittadini, la pagina evangelica odierna riferisce che Gesù stesso si è imbattuto in questo problema, pagina che per essere ben compresa necessita di un minimo di contestualizzazione storica. La Palestina del tempo di Gesù era sottomessa al potere di Roma al cui erario doveva pagare il « census», una tassa pro capite di un denaro d’argento l’equivalente di una giornata lavorativa, tributo a cui erano tenuti uomini, donne e schiavi dai 14 ai 65 anni. «Census» da distinguersi dal «fiscus Judaicus» (Mt 17,24) da pagarsi al Tempio, denaro con l’immagine dell’imperatore e la scritta: «Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote».
Tributo da pagare o no? Questo il problema, un interrogativo con più risposte: sì per gli erodiani, nel brano evangelico i sostenitori di Erode Antipa tetrarca di Galilea, sì per gli stessi farisei in ragione del fatto che ogni autorità viene da Dio e no per gli zeloti per il semplice motivo che quella moneta era da considerarsi idolatrica nel suo divinizzare l’imperatore. Una visione legata al divieto di farsi immagini del divino (Es 20,4). E sono proprio erodiani e farisei a voler conoscere a questo proposito il pensiero di Gesù: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Mt 22,17). Un Gesù di cui si vuole catturare la benevolenza fornendo di lui un ritratto straordinario: sincero e rigoroso nell’insegnare la via di Dio senza soggezione di alcuno (Mt 22,16), un uomo di rara autenticità e libertà, un uomo che non si nega alla risposta.
2. La prima parte della risposta, traducendo perfettamente il suo non guardare in faccia a nessuno (Mt 22,16), taccia di ipocrisia quanti gli hanno posto la domanda non mossi dal desiderio di conoscere la verità ma per metterlo alla prova (Mt 22,18). Consapevoli che, qualunque essa sia, la sua risposta finirà per attirarsi l’inimicizia di qualcuno: se «no» quella della autorità romana e dei collaborazionisti quali gli erodiani che lo potranno accusare di sobillazione; se «sì» quella degli zeloti e di gran parte del popolo avverso alla occupazione romana che lo potranno accusare di collaborazionismo. Non è un caso che a metterlo alla prova siano due gruppi che, sia pure per ragioni diverse, pagavano tranquillamente il tributo; l’importante era togliere consensi a un Gesù la cui risposta: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21) va oltre la diatriba del momento aprendo spiragli di novità validi per ogni generazione. Risposta che opera una «distinzione» tra la sfera della politica e la sfera della fede; risposta che stabilisce una «gerarchia» tra Cesare e Dio, nel senso che è quest’ultimo il primo e il determinante il modo di abitare la terra; risposta infine che, alla luce di tutto questo, provoca gli interlocutori a «discernere» che cosa dare a Cesare e che cosa a Dio: al primo il tributo, cosa che gli appartiene, al secondo se stessi, persone nelle quali egli dimora dischiudendole all’amore, alla vita eterna e al non ritenere cosa illecita il restituire all’autorità politica ciò che gli è dovuto, l’onore, le tasse (Rm 13,7) e, quando necessario, la disobbedienza. L’ambito del politico non è negato e dall’ambito del politico nessuno è esentato, semplicemente esso viene liberato da ogni tentazione di divinizzazione-sacralizzazione-assolutizzazione di sé, ricondotto all’ambito delle realtà penultime a cui non è dato primato alcuno sulla coscienza dell’uomo.
Saggezza pertanto è imparare a dare il nome alla radice prima su cui una vita è fondata e da cui trae ispirazione, nome che non separa da ciò che è secondo e che non distoglie dai doveri di ciò che è secondo, il pagare le tasse ad esempio, semplicemente aiuta a leggerlo bene. Gesù non entra nella casistica, semplicemente offre una indicazione che, se e quando accolta, permetterà ai suoi discepoli nel corso della storia di vivere in verità il loro rapporto con l’autorità politica e con il capitolo delle tasse «in modo degno del Vangelo di Cristo» (Fil 1,27), maniera sapienziale.
3. A titolo esemplificativo lettura sapienziale dell’autorità politica è saperla dono di Dio, tutto nel cristianesimo va visto nell’orizzonte del dono. Un dono per un compito regale: promuovere, garantire e custodire diritto, giustizia e pace a partire dagli ultimi della terra. Per questo l’autorità va onorata e, in questa ottica, il pagare le tasse diventa un atto di amore in quanto strumento di solidarietà e di condivisione al fine di cooperare al vivere in dignità di ogni persona con le sue esigenze di pensione, di istruzione, di salute, di gioco e di cassa integrazione. Un dare accompagnato dalla chiarezza e dal coraggio profetici che reclamano impostazioni fiscali eque e razionali. Prospettive tutt’altro che ingenue. Di fatto conoscere il compito e il limite dell’autorità politica diventa fonte di discernimento critico che di volta in volta è chiamato a dire sì ma anche no e nì, in riferimento alle stesse tasse. E ciò oltre ogni negazione aprioristica e ogni omologazione aprioristica, ove il sì è sempre nella vigilanza di coscienze evangelicamente risvegliate.
La barbarie inizia ove qualcuno e qualcosa si ritiene «dio» dell’altrui coscienza riducendo la persona a strumento o mezzo della propria astratta e assolutizzata visione della vita. È il caso del fascismo, del nazismo, del comunismo reale, della globalizzazione del mercato, della cultura del liderismo e della lettura fondamentalista e muscolare del fatto religioso. Lì la presenza del discepolo deve tradursi in resistenza, e le Chiese per essere credibili devono riacquisire la loro libertà: nè Chiese braccio religioso degli Stati né Stati braccio secolare delle Chiese. Oltre ogni confusione non richiesta e ogni privilegio.