Dove si manifesta la Pasqua di Cristo

Ogni anno il cammino liturgico del tempo di Pasqua incrocia, nella quarta domenica, il tema di Cristo buon pastore (Gv 10,11-18), un tema fisso quasi a sottolineare come non si possa comprendere appieno il significato della Pasqua astraendo da esso. Nella dedizione del buon pastore si manifesta il mistero della Pasqua nella sua concretezza: essa è vita donata, e come si può cogliere questo dono se non nel rapporto del pastore con il gregge che nutre e guida? E’ in questa relazione continuativa e quotidiana che possiamo entrare in questo mistero di salvezza, non, o non solo, mediante una riflessione teologica o dottrinale.

La Pasqua è il fondamento della vita e della missione della Chiesa, la sua ragion d’essere, la mancanza del quale la renderebbe un guscio vuoto, senza alcun significato (cf. 1Cor 15,17). Il Risorto è ancora, anzi lo è al massimo grado, il «pastore grande delle pecore» (Eb 13,20) che, tornato dai morti, comunica la sua stessa vita a coloro che il Padre gli ha affidato. Allora, di conseguenza, anche l’opera pastorale della Chiesa che si pone nella medesima scia, è partecipazione e manifestazione del mistero pasquale. Perciò se volessimo guardarci intorno per vedere dove si manifesti la Pasqua di Cristo, la sua vita nuova, potremmo innanzitutto guardare alla missione della Chiesa (anche se non ne ha il monopolio, soffiando lo Spirito dove e comunque vuole), attuata in forme e modi diversi, in ministeri ordinati o di fatto. Ma, se questo è vero, il confronto con la realtà può riservarci anche delle dolorose sorprese.

Se la carità pastorale è un indicatore della concretezza della Pasqua operante nella storia, dovrebbe essere visibile nel cambiamento dei rapporti interpersonali, all’interno della comunità e nella società dove è presente come sale e lievito (cf. Mt 5,13), ma ciò non è scontato, dato che divisioni, invidie, fino alla copertura e connivenza coi reati più abietti possono essere presenti nella Chiesa a tutti i livelli, denunciati più di una volta dallo stesso Papa, come pure non è scontato che secoli di tradizione cristiana abbiano davvero prodotto una lettura sapienziale della storia, degli avvenimenti, rispetto alla semplice ricerca del proprio interesse immediato. E’ la mentalità del mercenario che può rientrare dalla finestra dopo che Cristo l’ha cacciata dalla porta, una mentalità che si basa sul dare valore ad altro rispetto a ciò che si sta facendo, alle persone che si incontrano, al significato delle proprie azioni. E’ il vivere distaccati dalla realtà per entrare nel gioco dei numeri, delle  quantità, dell’accumulo. 

Viceversa è Cristo il termine ultimo di confronto: perfino una guarigione prodigiosa come quella operata da Pietro (At 4,8-12; 1a lettura) rimane mutilata se non si arriva a dare un nome ad essa, a viverla come manifestazione di un nome che salva. L’azione pastorale della Chiesa, la sua testimonianza, non potrà mai fare a meno di questo confronto che la lascerà sempre un passo indietro, data la grandezza del compito, ma anche con un cammino aperto davanti a lei. Se i membri della Chiesa, ministri ordinati o no, dimenticano questo per concentrarsi su altri programmi, più o meno validi o plausibili ai propri occhi, rischiano di perdere il senso della Pasqua e della stessa vita, come se Cristo non fosse risorto, o peggio ancora, «rendere vana la croce di Cristo» (1Cor 1,17), declassandola ad incidente momentaneo, per volgere lo sguardo altrove rischiando addirittura di diventarne nemici (cf. Fil 3,18).

*Cappellano del carcere di Prato