Dio ci restituisce la libertà di amare

Da questa settimana, la rubrica di commento alle letture domenicali è curata dalla Comunità di San Leolino. La Comunità, di recente fondazione, si dedica all’evangelizzazione della cultura e attraverso la cultura, coltivando la preghiera e la ricerca spirituale e culturale e promuovendo convegni, seminari, percorsi di spiritualità, concerti e mostre, presso l’omonima Pieve nel Chianti (Diocesi di Fiesole).

Letture del 26 giugno, 13ª domenica del Tempo ordinario: «Costui è un uomo di Dio, un santo; rimanga qui» (2 Re 4,8-11.14-16); «Canterò per sempre la tua misericordia» (Salmo 88); «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4.8-11); «Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me. Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,37-42)

a cura della COMUNITA’ DI SAN LEONINOVivere per ogni creatura umana significa, il più delle volte, evitare il rischio e soprattutto quello supremo, cioè la morte in molti sensi e non solo quella del corpo. Così, il nostro profondo bisogno di essere accolti e amati dalla realtà che ci circonda, a cominciare dalla stessa realtà della famiglia, consegna la nostra anima al labirinto del nostro inconscio o anche all’emotività accesa della nostra psicologia dove i fili sottili che ci tengono stretti diventano delle vere tele di ragno in cui ci smarriamo, giorno dopo giorno.

La pagina del Vangelo di questa domenica, che conclude il discorso «missionario» di Gesù, getta luce proprio su questo groviglio del nostro cuore in cui gioca un ruolo non marginale la stessa cultura e mentalità sociale che, in ogni tempo, non tiene conto della persona o dell’individuo, anche se oggi potrebbe sembrare tutto il contrario. Di fatto, i fili del nostro peccato sono più tenaci e più sfuggenti di quanto possiamo intuire.

Dio, attraverso Gesù, ci restituisce, prima di tutto, la nostra libertà, la nostra creaturalità fatta di tensioni ideali o del diritto alla ricerca di ciò che costituisce la nostra unica identità che lui ha creato e che ama, nonostante le nostre debolezze e paure. Per questa ragione, Gesù domanda ai suoi discepoli un’adesione totale alla sua Persona fino al punto di usare parole forti e intransigenti: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38). Certo, Gesù non intende sciogliere l’unità familiare o creare tensioni di rottura tra i suoi. E tuttavia, la radicalità della sua chiamata esprime, a chiare lettere, la forza inesprimibile del suo amore: ognuno di noi, strada facendo, imparerà dalla vita che solo Gesù sa amare realmente ed è nello slancio misterioso di questo amore che Egli può esigere tanto da noi, ben sapendo quanto quest’adesione a Lui ci costerà in termini di egoismo e di narcisismo. L’amore autentico esige questa libertà di amare fino all’ultimo e totalmente. Il che significa che, per amore, saremo spogliati di tutto e cioè purificati fino in fondo. Da qui, allora, la radicalità della sua chiamata all’amore che ha in Gesù il centro, il fulcro di tutto: ognuno di noi, infatti, ha un genitore da seppellire, un caro da salutare, una professione da perfezionare o gli studi da concludere: ma il Signore Gesù irrompe d’improvviso nella nostra vita con la centralità del suo amore e chi vorrebbe che gli lasciasse prima vivere questa o quella esperienza dovrà capire, anche a sue spese e cioè con delusioni e impotenze, questa libertà dell’amore di Dio che non offre il superfluo o il caduco, ma tutto: Dio stesso!

Ecco perché Gesù invita i cristiani ad accogliere i suoi evangelizzatori come avrebbero accolto lui stesso che raccoglie sempre attorno a sé gli umili della storia, gli ultimi nel senso vero della parola, coloro cioè che non possiedono altro che l’innocenza dei loro sentimenti dal momento che preferiscono ai valori del «mondo» la libertà dell’amore. Come Gesù che, per amore, ha bruciato sulla croce le ambiguità con cui noi rivestiamo ciò che crediamo di sentire nell’amore o nella libertà.