Dal «primo comandamento» al comandamento nuovo

Letture del 5 novembre, Domenica XXXI del Tempo ordinario, B: «Questi precetti ti stiano fissi nel cuore» (Dt 6, 2-6); «Tale era il sommo sacerdote che ci occorreva» (Eb 7, 23-28); «Nessuno aveva più il coraggio d’interrogarlo»( Mc 12, 28-34).

DI BERNARDINO BORDOL’ascolto delle tre letture di questa prima domenica di novembre presuppone la distinzione fra il nuovo precetto dell’amore evangelico e il primo dei numerosissimi precetti vetero-testamentari, affiancati da innumerevoli altri della saggezza rabbinica, contati fino a 613! Qui si parla solo del primo.

Apre il Deuteronomio che raccomanda di trasmettere da padre in figlio i comandamenti della Torah, in modo da stamparli ben «fissi nel cuore» (prima lettura). Perché una religiosità così scrupolosa potesse attuarsi nella pratica quotidiana, l’autore della Lettera agli Ebrei fa notare che è stato istituito, nel nuovo progetto di salvezza, un sacerdozio che riconoscere per capo, un sommo sacerdote diverso dagli altri: uno che «può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio» (seconda lettura).

Marco entra in argomento attraverso un episodio che verrà poi ripreso da Matteo e da Luca con delle varianti. In Mt 22, 43-40 si avverte chiaramente che la domanda del rabbi non deriva da sincero desiderio di sapere come la pensasse su di un tema così importante, ma dal tentativo di metterlo in imbarazzo. In Lc 10, 25-28 c’è di più: che non è stato Gesù a rispondere recitando lo Shemà. Capito che lo si voleva imbrogliare, respinge al mittente la domanda: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?» In perfetto stile rabbico, costringe l’interlocutore a recitare, lui stesso, il testo scritturistico.

Il fatto è che tutto il discorso riguardava per allora, il solo problema di una scala di priorità nella precettistica deuteronomica. Sarebbe venuto presto il momento, in cui il divino Maestro avrebbe proclamato al mondo non il primo di quella serie, ma il nuovo, assolutamente al di fuori e al di sopra. Allora non si sarebbe parlato più di amore del prossimo, che in senso giudaico significava esattamente il vicino: vicino di razza, di clan, di sangue (il forestiero era guardato con semplice benevolenza, nel solo caso che abitasse fra di loro), ma di amore universale. «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 13,34). Qui tutto è nuovo, anzi inconcepibile nel contesto storico della pericope marciana: nuova la dimensione, che risulta universale («Ogni uomo è mio fratello», avrebbe commentato Paolo VI), nuovo il modello comportamentale, che non è l’amore a se stessi, ma quello che Cristo ha mostrato a noi, donando se stesso alla morte «e morte di croce».

Un programma, questo, che interpella la coscienza di ciascuno, non tanto nel saper dare precedenza a Dio nell’impegno religioso, quanto nel riconoscerlo e amarlo nei fratelli: connazionali ed estracomunitari, ricchi e miserabili, in condivisione professionale, politica, sportiva, religiosa con noi, o antagonisti, per non dire nemici.

La lezione al rabbi insidioso fu seguita dal silenzio dello sgomento: «Nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo». A noi, questo coraggio, manca spesso nell’ interrogarci sul nostro modo personale di testimoniare Cristo. «Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se mi amerete gli uni gli altri» ( Gv 13,35).