Custodiamo i talenti senza aver paura di Dio

La vita di ognuno di noi è dono e chiamata. E Dio è come quell’uomo della parabola dei talenti che, partendo per un viaggio, «chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni» (Mt 25,14). Ci ha chiamati alla vita, ci ha riempito di doni, ci ha dato una missione, una vocazione. «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,15). Dio non fa figli e figliastri. Piuttosto, ha creato ognuno di noi con caratteristiche differenti: il diverso numero dei talenti indica proprio la sua fantasia nel distribuire i doni.

Ma ci riesce difficile guardare alla nostra vita come a un continuo regalo da parte di Dio. Facciamo fatica a non dare niente per scontato. Eppure, ci sono continui, quotidiani miracoli nella normalità della nostra esistenza: l’aria, l’acqua, il sole, e poi la gente che ci sta attorno, gli sguardi, gli amici. Non ci accorgiamo che anche i nostri stessi buoni sentimenti, i desideri di bene che proviamo, sono doni. Tutto è grazia.

Ma ciò che l’uomo della parabola consegna ai servi è e resta suo: «consegnò loro i suoi beni» (Mt 25,14). Perciò, noi riceviamo tanto dal Signore, ma dobbiamo «vivere» e far fruttificare i doni tenendo presente che non sono nostri. È importante renderci consapevoli che tutto ci è dato «in prestito» affinché lo custodiamo con cura e lo facciamo crescere. Il «servo malvagio e pigro» (Mt 25,26), invece, ha avuto paura (cfr. Mt 25,25) e ha nascosto il talento che aveva ricevuto. Lo ha tenuto per sé. Ha reso la propria vita infeconda. Ha escluso gli altri. Dio, però, non vuole essere temuto. Il vangelo è una via di gioia, di pienezza, di vita. È via di libertà. E libertà è saper condividere con gli altri i nostri doni. Renderli fruttuosi. Essere creativi.

I talenti sono la chiamata alla vita con Dio, alla comunione con Lui. Sono il dono della grazia che ci rende capaci di accogliere la Sua amicizia e di godere della Sua visione nell’altra vita. Sono la vocazione che abbiamo ricevuto: un dono immenso da custodire e rendere fecondo.

Ma i talenti sono anche i doni soprannaturali che lo Spirito distribuisce nella Chiesa per il bene di tutti. I carismi sono vivi e, pur restando se stessi nel tempo, devono essere sviluppati. Altrimenti, muoiono. È quanto mai importante, allora, che religiosi e consacrati non fermino la vita del proprio carisma ma lascino che lo Spirito lo sviluppi, in ogni tempo, con persone e modalità nuove. C’è, infatti, il pericolo di lasciarci bloccare dalla paura, come il servo della parabola, e di preferire nascondere il talento, «tenerlo al sicuro», impedendo però, così, una maturazione, una crescita, un risveglio, un rinnovamento. Potremmo illuderci di custodire ciò che ci è stato consegnato il giorno in cui siamo entrati in convento o in monastero, evitando di porci nuove domande, di metterci in discussione, di accogliere le sfide, proposte ed esigenze del nostro tempo. E invece, forse, in questo modo manchiamo di fede nello Spirito e diventiamo infecondi. Potremmo avere la tentazione di pensare che solo con noi Dio abbia potuto costruire qualcosa di buono. Facciamo fatica a fare spazio a chi è arrivato dopo o a chi la pensa diversamente da noi. Facciamo fatica persino ad ascoltarlo. E a creare un progetto comune. Facciamo fatica a metterci in ascolto di quello Spirito che a tutti, e non solo a qualcuno, chiede un salto in avanti, un cambiamento di stile, di pensiero, di vita. È vero: sarà una nuova, faticosa partenza. Di nuovo, dovremo lasciare ognuno le proprie reti, per prendere il largo e costruire una vita religiosa che sia risposta efficace e autentica ai bisogni del nostro tempo.

«Entra nella gioia del tuo padrone» (Mt 25,21.23), si sentono dire i due servi buoni e fedeli. La vita cristiana e la vita religiosa sono un’esperienza di felicità. Sono un «entrare nella gioia». La vita con Dio è liberante, piacevole e bella, anche umanamente. E i religiosi dovrebbero essere persone dalla vita tutta luminosa, limpida, attraente, perché trasfigurata. Solo se daremo questa testimonianza di luce e di gioia, di libertà e responsabilità, di apertura al nuovo e alla vita, di capacità di lasciarci ancora mettere in discussione e trasformare dalla Parola; solo se saremo seme piccolo ma fecondo di amore appassionato a Dio e alle persone; se accoglieremo con coraggio le sfide del nostro tempo, l’uomo di oggi non potrà fare a meno di accogliere il messaggio del vangelo. Perché lo troverà irresistibile! Ma siamo ancora capaci di guardare al mondo, agli altri, alla Chiesa e alle nostre comunità con la stessa speranza con cui le guarda Dio? Siamo ancora capaci di creatività?

Suor Mirella Caterina Soro