Cosa significa amare i nemici
La liturgia di questa domenica ci presenta forse il punto più alto dell’annuncio di Cristo, punto di una incredibile ricchezza di significato e contemporaneamente di difficile approccio per gli stessi credenti. Se anche la prima lettura (Lv 19,1-2.17-18) nella sua antichità conserva una ricchezza e una modernità sconcertanti, al punto che riecheggerà nella stessa predicazione di Gesù («amerai il tuo prossimo come te stesso» – Mt 22,39 ), il messaggio di Cristo rompe ogni argine, si riveste di scandalo ai nostri orecchi, suscita le grida ancestrali che conserviamo nel cuore e che spingono alla vendetta, e non teme di annunciare l’intollerabile: «vi dico di non opporvi al malvagio… amate i vostri nemici…»(Mt 5, 38-48).
Se non provoca repulsione l’invito ascoltato nella prima lettura, tranne forse un sentimento di inadeguatezza nel rispondere alla chiamata ad essere santi come Dio è santo, e perfino l’invito a non vendicarsi ma ad amare il prossimo è comprensibile, pur essendo assai impegnativo, forse non è così per il Vangelo. Sono state mosse critiche anche autorevoli al prendere sul serio quest’invito poiché il mondo non è un luogo dove tutto funziona linearmente. C’è chi pensa che Gandhi sia riuscito a liberare il suo paese tramite la lotta nonviolenta perché aveva di fronte la civile Inghilterra, ma che le cose sarebbero andate diversamente con Hitler e la Germania nazista. A tutt’oggi il rischio di fare come con Hitler che all’inizio fu lasciato agire senza intervenire, è stato sbandierato ad ogni campagna militare contro i vari dittatori come Saddam e Gheddafi e addotto come motivazione per l’azione.
Di fronte alle problematiche di un mondo sempre più complesso, con i grandi valori che fino ad oggi sembravano acquisiti e che sono alquanto appannati: la democrazia, i diritti umani, l’intercultura, la mondialità, è forte la tentazione di tornare a maniere più spicce. Ci sono oggi emergenze, delle quali il terrorismo è il culmine, di fronte alle quali vengono messe da parte garanzie, si alzano voci forcaiole, si fa un mucchio di tutto, figuriamoci se c’è spazio per il messaggio evangelico, roba da anime belle.
Ma Gesù Cristo conosce bene la complessità di questo mondo, è in questo tipo di mondo che ci è richiesto di essere suoi testimoni (cf. Lc 24,48). Egli non fonda un educandato ma raduna una comunità inviata «come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3). È vero che il Vangelo non è immediatamente traducibile in norme di comportamento o in leggi civili, ma occorre prendere sul serio il compito affidatoci, assumere un obiettivo di fronte al quale ci sentiremo sempre in deficit, ma che porti realmente novità nella vita dell’uomo. Si può essere (forse) costretti a uno scontro, può darsi che la guerra non sia del tutto eliminabile dall’orizzonte del mondo. Ma il problema è la sua glorificazione, è la confidenza nella giustizia ottenuta con la forza, è dare un valore culturale alla vendetta, è l’idea di una giustizia che si misura con gli anni di carcere inflitti che deve essere evitata, combattuta con gli strumenti della testimonianza della novità di Cristo. Nella sua grande saggezza Giovanni Bosco diceva ai suoi collaboratori che forse potrà essere necessario punire un allievo, ma questi deve accorgersi che viene fatto malvolentieri e dopo aver esaurito ogni altra possibilità. Non è l’urlo di esultanza del popolo sulla piazza della ghigliottina o su quella del web.
*Cappellano del carcere di Prato