Corpus Domini: la Parola si fa pane

Domenica 25 maggio, Santissimo Corpo e Sangue di Cristo: «Ti ho nutrito di un cibo che tu non conoscevi» (Dt 8,2-3); «Benedetto il Signore, gloria del suo popolo» (Salmo 147); «Un solo pane, un solo corpo noi siamo» (1 Cor 10,16-17); «La mia carne è vero cibo, e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,51-58)

DI MARCO PRATESI

Il cammino di Israele nel deserto si è svolto «tra serpenti e scorpioni», in una situazione di continuo pericolo. In particolare, nell’alternanza tra fame e sazietà, sete e dissetamento. Pane e acqua non sono state procurate dalle risorse umane, ma dall’intervento divino. La salvezza era umanamente inarrivabile, eppure è arrivata: l’acqua dalla roccia, la manna dal cielo. Manna ignota ai padri. Non solo, quindi, Israele non aveva i mezzi per sfamarsi, ma nemmeno l’idea di cosa poteva saziare la fame.

Israele fa l’esperienza che non si vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore. Quanto esce dalla sua bocca è al tempo stesso il nutrimento, l’acqua, la protezione, tutto il necessario per vivere; e la sua Parola, il rapporto con lui, la fiducia in lui. Una madre dà solo latte al figlio che allatta? O nel latte mette anche se stessa, stabilisce un rapporto? E se al bambino venisse garantito il latte, ma senza un rapporto, sarebbe lo stesso? Il dramma dell’uomo è precisamente che ha scisso quanto doveva rimanere unito: gli sembra di potersi procurare il pane, la vita, fuori dal rapporto con Dio. Bisogna reimparare che la vita è una, che i due ambiti – pane e Parola – sono legati. Anche Gesù nel Padre Nostro insegnerà a chiedere a Dio il pane, ogni pane, senza tante distinzioni.

Se l’uomo cercasse da Dio solo pane, la sua obbedienza sarebbe comprata, solo una schiavitù, e Dio un tiranno come tanti altri, che strumentalizza la fame dell’uomo per farsi ossequiare.

Se l’uomo cercasse da Dio solo la Parola, pensando di avere la vita già assicurata per proprio conto, sarebbe nell’illusione. Si presenterebbe a Dio da ricco. Ma il cammino nel deserto ha tra l’altro lo scopo di rendere povero Israele, «umiliarlo». E quando Gesù nel deserto oppone al diavolo questa parola – «non di solo pane…» – son quaranta giorni che digiuna. Quando ci si vuole prima saziare d’altro e poi cercare Dio; prima risolvere i propri problemi e poi aspirare a Dio, siamo già sulla strada sbagliata. È un miraggio: saturarsi di un pane muto, nel quale non si trova alcuna parola, moltiplica soltanto le fami e immette in un circuito perverso, di morte.

L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito: si cerca la Parola mentre si cerca il pane, e viceversa. Nel pane si cerca una Parola, nella Parola si cerca il (senso del) pane.

Questo movimento raggiunge il suo apice nell’Eucaristia, Parola fatta pane. Il Verbo fatto carne si fa pane, per metterci in grado di camminare attraverso i serpenti e gli scorpioni dell’esistenza, le sue fami e le sue seti, scoprendovi l’amore di Dio, nella memoria gioiosa e continua del grande esodo compiuto da Gesù (la sua Pasqua), luce costante al cammino. È il pane per la bisaccia del povero, il pane impossibile, inaspettato, nemmeno immaginato; dono che scende dall’alto, perché ognuno impari come si abita la terra dell’abbondanza, per potervi definitivamente entrare. Perché «se non sapete gestire le piccole sostanze che avete adesso, chi vi darà quelle vere?» (cf. Lc 16,11).

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