Convertirsi per rimanere saldi nel Signore

Vi è un detto che, nella sua aspra verità, potrebbe richiamare e riassumere uno dei temi del brano evangelico di questa domenica (Lc 13,1-9): pensiamo sempre che certe cose (malattie, disgrazie, fallimenti) accadano agli altri; ma qualche volta gli altri siamo noi. E’ un detto che potrebbe aprire la porta a uno scetticismo totale, a vivere in modo fatalistico la nostra vita, ma è vero che anche la posizione di Cristo, nei primi versetti, è altrettanto netta e tagliente, senza nessun cedimento a indorare la pillola del rapporto con una vita caotica, attorcigliata su sé stessa, dove la ricerca di spiegazioni e rassicurazioni può alimentare l’illusione che vi sia una motivazione razionale, riconducibile a punti fermi, a infrazioni di leggi naturali o morali (e certe volte può pure esser così) ma si tratta di una coperta stretta con una valenza simbolica, come quella di Linus, utile solo a calmare le nostre paure più recondite fino allo shock successivo.

Ma, potremmo ribattere, si tratta solo di conversione? In che senso convertendosi possiamo uscire da questa situazione che ci paralizza? Si tratta, daccapo, di punizioni che Dio manda ai peccatori? Ma Gesù non ha appena detto che non è quello il punto? E anche la parabola del fico sterile è solo l’annuncio della sospensione di una condanna, una sorta di condizionale, o qualcos’altro?

Le altre letture possono offrirci altre prospettive: nella prima (Es 3,1-15) viene narrato l’incontro di Mosè con Dio e la chiamata che egli riceve per realizzare quello che Dio ha in mente, liberare il suo popolo, perché Egli ha visto le sue sofferenze, senza che nessuno si sia rivolto a lui esplicitamente; un intervento, quindi, non sollecitato, totalmente gratuito, con Mosè, addirittura, che nicchia nel farsi coinvolgere e Dio che irrompe come liberatore in una situazione di morte. Nella seconda (1Cor 10,1-12) Paolo riprende ancora tutto il tema dell’Esodo, riassumendone le tappe principali, inserendolo in un cammino che avrà la sua pienezza in Cristo, che già fin da allora era misteriosamente presente come fonte di acqua viva, in quanto tutto finalizzato a Lui. Ma il finale è sconcertante: tutti coloro caddero vittime nel deserto. Paolo afferma: perché mormorarono, e Dio non si compiacque di loro. Ma allora siamo ancora nei termini della lite: l’uomo che non si fida, e Dio che si offende.

Ma prendendo sul serio l’invito di Gesù alla conversione che cosa accadrebbe? Molti credenti e testimoni autentici sono stati perseguitati fino ad oggi, molti missionari e volontari hanno perso la vita sulle vie del mondo per incidenti e malattie. E allora dove sta il nodo della questione? Gesù dirà, poco prima della fine della sua vita: «rimanete nel mio amore» (Gv 15,9), Paolo dirà «sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore» (Rm 14,8).

Al di là di ogni spiritualismo di bassa lega credo che il problema sia proprio qui: essere o no nel Signore, vivere in lui le sfide della vita dovute alla casualità delle vicende umane o alla condotta di qualcuno. Può sembrarci troppo poco, il rimandare tutto a una questione di vita interiore, una via d’uscita troppo facile di fronte alle contraddizioni dell’esistenza? Credo che questo sia invece un punto centrale, quello che oggi va sotto il nome di resilienza, la capacità di stare dentro la tempesta agganciati a un senso diverso e superiore, lo «Stabat Mater» di Maria che fra pochi giorni contempleremo sotto la croce, da invocare anche per noi.

*Cappellano del carcere di Prato