«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Questo invito di Gesù schiude un evento di salvezza. Per troppo tempo abbiamo interpretato la fede come un atto volontaristico, o l’esito di uno sforzo. La conversione è suscitata invece dal percepire su di sé la potenza di uno sguardo. È un incontro che cambia la vita, quello con il Salvatore. Così accadeva 2000 anni fa per Pietro e Andrea, per Giacomo e Giovanni. E così avviene nel nostro tempo per ogni bimbo che è battezzato in parrocchia. Come i primi apostoli, anche i cristiani di oggi sono chiamati a lasciare le reti dei propri progetti, per prendere il largo e gettarsi nell’avventura della sequela di Cristo. L’entusiasmo della fede può in tal modo irradiare l’intera società. «Pescatori di uomini», in senso letterale significa infatti rianimatori, capaci cioè di offrire aria nuova: come i sub che prestano il loro boccaglio a chi sta soffocando, per vuoto di speranza. È l’ossigeno del Vangelo che guarisce la paura di costruire una famiglia, di far figli e soprattutto la paura del per sempre che paralizza le giovani generazioni. Come diceva Karol Wojtyla: «l’amore è una sfida continua. Dio stesso forse ci sfida affinché noi stessi sfidiamo il destino». Il fatto è che l’amore nuziale non è solo un’accattivante avventura per quell’uomo e quella donna che celebrano il matrimonio: lo è per tutti noi. Occorre testimoniare che il per sempre è possibile per la Grazia del sacramento, oltre che per l’aiuto di tanti fratelli e sorelle che nei movimenti e nelle associazioni non giudicano le possibili cadute, ma incoraggiano ogni giorno a ricucire i rapporti. Scriveva Mario Luzi, celebre poeta fiorentino: l’amore autentico inserisce «questo tempo nel tempo senza fine». È la Grazia divina che trasforma il battito del proprio cuore per la persona amata, nell’esperienza viva di toccare l’Eterno. Così il cristiano porta il respiro dell’eternità nei luoghi del lavoro, della vita pubblica, nelle relazioni amicali e familiari. In questo è fondamentale il ruolo del laicato, perché sia espressione di «quel popolo che camminava nelle tenebre e vide una grande luce» (cfr. Is 8,23). Non possiamo allora accontentarci di cattolici spenti, o peggio ancora di chi, piuttosto che facilitare l’accesso, costruisce recinti. Don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo, nella sua Lettera alla parrocchia, ci indicava la via: «Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti. Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accogliere cordialmente l’opera rispettando quella felice, per quanto incompleta, struttura spirituale che fa il laicato capace di operare religiosamente nell’ambiente in cui vive». Diventiamo allora, sulle orme dei primi apostoli, artefici di comunione.«Gesù guariva ogni sorta di infermità nel popolo» (cfr. Mt 4,23). Sanava soprattutto le ferite provocate dalle divisioni (cfr. 1 Cor 1,10) che frammentano il corpo ecclesiale, come già accadeva nella comunità di Corinto. Diceva Italo Calvino: «Che pena. Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare».