Come i gigli del campo, come gli uccelli del cielo
L’invito che Gesù Cristo ci rivolge in questa domenica è solo in apparenza un discorso scontato, un po’ naif, dal sapore hippy , da «figli dei fiori», cultura che ci riporta indietro di alcuni decenni e ormai tramontata, anche abbastanza mestamente. In realtà Cristo mette il dito in un punto assai dolente del nostro tempo, ovvero la costruzione di una identità mediata da molti fattori, così ridondanti, a volte, da ribaltare i significati degli elementi in gioco. Proviamo a essere più chiari: sulla carta è lampante e altamente condivisibile l’affermazione di Gesù «la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito» (Mt 6,25); da qui la relativizzazione di cose, beni, proprietà che dovrebbero essere viste in funzione della vita della persona e della sua crescita.
Vediamo invece che sempre più spesso il vestito prende il posto della vita, l’apparire distrugge la persona che vive in funzione delle costruzioni sociali; il bisogno non è determinato dalla vita, dalla realtà, ma il contrario; i bisogni sono indotti, se ne creano sempre di nuovi e alla fine hanno il solo compito di perpetuare se stessi. Il caso dell’adolescente che vende la propria immagine o anche il proprio corpo per una ricarica del cellulare ne è l’immagine più eclatante, la riproposizione eterna di un circolo vizioso che non ha mai fine, una specie di inferno virtuale che provoca però disastri molto concreti nelle storie delle persone.
Forse (per il nostro mondo, beninteso, non mi riferisco ad altre aree del pianeta con tutt’altri problemi) il cibo o il vestito non sono più un problema, ma «quel» cibo e «quel» vestito, o «quella» cosa senza i quali semplicemente non ci sembra di esistere.
La proposta di Gesù Cristo è quindi innanzitutto un bagno di realtà, anche se a volte la realtà sembra una favola per chi ormai si è omologato a uno schema precostruito, al punto che può accadere che nello scontro fra realtà e schema mentale sia la realtà a perdere. Anche questo rende visibile il dramma di un annuncio evangelico estremamente chiaro e liberante, che sembra invece inconsistente. È la sapienza di Dio che appare come follia a questo mondo, considerazione di Paolo che abbiamo ascoltato anche nella liturgia delle scorse domeniche nella prima lettera ai Corinti (cf. 1 Cor 1,18-31). L’invito di Gesù Cristo è quello di alleggerire il nostro bagaglio, dare un nome alla realtà che viviamo: la ricerca spasmodica della ricchezza, delle cose, della «roba», come direbbe don Milani, riempitivo e rassicurazione per l’ansia della vita, a volte sentita come doverosa nei confronti di un Dio che non riteniamo affidabile, è semplicemente schiavitù, stato servile che non ha neppure la dignità del servizio a Dio (cf. Mt 6, 24). Mentre quest’ultimo ci indirizza verso il servizio ai fratelli, nell’ottica della sequela, del fare propri «i sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5), quella si consuma semplicemente nell’illusione della propria grandezza.
Il Dio di cui forse non ci fidiamo pienamente continua comunque a ridirci il suo amore paterno e materno, il suo costante ricordo, la nostra presenza che egli mantiene di fronte ai suoi occhi (Is 49, 14-15; 1° lettura), nella ricerca di una relazione vitale. Una memoria che non è quella di un dato relegato in una manciata di byte, ma che si sostanzia nel volto di ciascuno di noi, che si specchia ed specchiato in quello di Dio.
*Cappellano del carcere di Prato