Chiamati a regalità
1. L’evangelo di Matteo è attraversato da una serie di preoccupazioni: rendere sempre più chiara sia l’identità di colui nel quale uomini e donne hanno riposto e ripongono fiducia, che l’identità di coloro che formano la sua cerchia. Senza nascondersi le conseguenze che la compagnia di Gesù comporta. Siamo al cospetto dell’inevitabile cammino verso una sempre più avvertita consapevolezza dell’identità del discepolo a partire da quella del suo maestro.
2. Maestro la cui verità è stata esplicitamente proclamata da Pietro, definito beato perché appartenente a quella schiera dei piccoli a cui il Padre rivela i suoi segreti (Mt 11,25-27; 16,17), nel caso il cogliere in Gesù il Messia. Ma immediatamente si apre un nuovo problema: Messia sì, e quindi Figlio di David e re di Israele, ma in quale forma? Sono in gioco la modalità di esercizio di tale messianicità – regalità, la sua concreta declinazione. E le interpretazioni divergono. Una questione antica. Già all’in principio della sua attività pubblica Gesù aveva dovuto fare i conti con questo problema, e il rimando è alle tentazioni (Mt 4,1-11), che ora gli viene riproposto con forza da Pietro. Questi, sorpreso dall’annuncio della passione – resurrezione da parte di Gesù a seguito della confessione di lui come Messia, reagisce come suo solito istintivamente.
Il piccolo diventa grande, il discepolo diventa maestro e colui che segue diventa l’apripista prendendo a parte Gesù, redarguendolo e indicandogli la via da percorrere. In sintesi quella di un messianismo potente e muscolare in grado di restaurare il regno di Israele facendo uso se necessario, come farà Pietro, della spada, della mano armata. Una interpretazione a cui Gesù si sottrae, e il «vattene» detto allora a Satana (Mt 4,10), qui diventa «Va dietro a me, Satana», torna al tuo posto, non impedire alla via del Padre di adempiersi, la via che conduce al patire, al morire e al risorgere. La via del Messia crocifisso già adombrata nella vicenda profetica di Geremia, nella figura del Servo sofferente di JHWH del Secondo – Isaia (Is 50,4-7; 52,13; 53,12) e nel personaggio del Figlio dell’uomo a cui fa riferimento lo stesso Gesù, un inviato celeste venuto a compiere l’opera di Dio per poi, attraverso il buco nero del patire, ritornare a Dio. E al rimprovero a Pietro segue del tutto consequenziale una parola chiarificatrice ai discepoli. Dire sì a Gesù Messia comporta in primo luogo il rinnegare sé stessi, vale a dire il mettere da parte letture del Messia e del messianismo nella linea dell’onnipotenza umana con i suoi sempre possibili risvolti diabolici, una società fondata sulla prepotenza dei lupi e sull’astuzia delle volpi, volpi ben inteso a fin di bene. Gesù privilegia la figura dell’agnello. E in secondo luogo comporta il prendere la propria croce, il dire sì a una vita come lotta con amore e a una morte come dono di amore. Questa è la via della resurrezione, questa è la via pasquale fatta propria da Gesù e Pietro e i suoi devono lasciarsi immergere in questa prospettiva, condizione imprescindibile del discepolo.
3. La coscienza personale e ecclesiale è risvegliata. Gesù è venuto a rendere pubblica la verità del suo Dio e dell’uomo secondo Dio: perfetti nel loro amare giusti e ingiusti, amici e nemici nella convinzione che di onnipotente c’è solo l’amore fino alla consegna di sé a quanti consegnano a morte. Chiesa dunque come assemblea raccolta da Gesù a essere in ogni dove il racconto dell’amore del Padre apparso in Gesù. Questa la sua regale identità a cui si perviene sempre più di spogliazione in spogliazione alla maniera di Pietro.