Annunciare il Vangelo camminando leggeri

Se confrontiamo la seconda lettura di questa domenica (Ef 1,3-14) con le altre due potremmo essere colpiti dalla diversità dell’approccio a un medesimo tema, con un contrasto quasi stridente. Paolo, infatti, con grande maestria dipinge un affresco che illustra la realizzazione del disegno di Dio, il suo dispiegamento nella storia, con una concentrazione di termini e di concetti tale da rendere difficile la stessa lettura, che richiede una notevole attenzione per non perdere il filo del discorso. È una sorta di estratto, di concentrato sostanzioso, ricco di energia da prendere a piccole dosi. Nelle altre letture, invece, vi è una sorta di leggerezza che emana da esse.

Nel Vangelo (Mc 6,7-13) è proprio una sensazione fisica, vi sono più cose da deporre che da prendere: l’annuncio del regno, la testimonianza della sollecitudine di Dio per le sue creature, cammina sui passi leggeri di piedi che calzano sandali, che si fermano dove è possibile, che cambiano strada se c’è bisogno. Più che un affresco questo sembra un canovaccio, un taccuino di viaggio che si va riempiendo via via, sulla stessa linea, in fondo, di Abramo che parte senza sapere dove va (cf. Eb 11,18), pur essendo lui stesso il primo e uno dei più grandi attori di questo progetto.

Non si tratta in realtà di una vera e propria contraddizione: anche Paolo sa bene che il dono di Dio si realizza in un cammino fatto di fatica, veglie, nudità, ostacoli (cf. 2Cor 11,27). Si tratta di prendere sempre assieme questi due elementi, senza banalizzare né la grandezza del dono ricevuto, né la quotidianità nella quale si realizza. La novità di Cristo viaggia su passi di dilettanti, potremmo dire, al di fuori delle vie ufficiali. E’ l’esperienza di Amos (Am 7,12-15), pastore e agricoltore, che deve scontrarsi coi professionisti della religione, il tale Amasia che identifica il santuario di Betel (Casa di Dio, come viene chiamato dal patriarca Giacobbe dopo la celebre esperienza del sogno rivelatore -cf. Gen 2,17-) con il santuario del re e tempio del regno. Il re, e il regno, originariamente simboli che rimandano alla regalità di Dio, hanno finito per sostituirsi a Lui: non c’è più alcuna parola da ascoltare, nessun messaggio da accogliere. Ancora una volta non sono tanto i lontani, gli infedeli, ma gli invitati, i familiari che possono chiudere i propri orecchi, e a quel punto la polvere scossa dai sandali degli annunciatori è la testimonianza dell’evanescenza e della vacuità di chi ha perduto un rapporto vitale e fecondo con Dio.

Molte volte nella riflessione su temi e prassi pastorali viene richiamato questo brano di Marco: uscire fuori, portare il vangelo a chi non lo conosce, magari proprio a due a due come qui descritto, per realizzare la tanto auspicata «uscita dalle proprie mura» per la Chiesa di oggi. Francamente non so se sia davvero importante ricalcare queste forme, di sicuro recuperare questo aspetto «leggero» non può che far bene. E’ vero anche che non può essere solo una strategia di «marketing» accattivante, è necessaria anche una riflessione che ci aiuti, come Amos, a prendere le distanze dall’idea di una religiosità ripiegata su stessa, di una Chiesa che guarda il proprio ombelico, per riscoprire innanzitutto nei propri confronti, la sollecitudine di Dio, la sua chiamata, la fiducia riposta nei vasi di creta che siamo (cf. 2Cor 4,7). Ma chissà se questa leggerezza, questo lasciarsi andare nel ritmo dei passi del pellegrino dice ancora qualcosa alla nostra società affamata di certezze e di ancoraggi, di conferme rassicuranti in ogni dove.

*Cappellano del carcere di Prato